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Tuesday Nov 08, 2016

Conoscere la lingua inglese è un must per lavorare nel settore del vino. Ma c'è una cosa in cui possiamo migliorare con i nostri clienti, ospiti e partner stranieri.
L'articolo L’inglese per vendere il vino: questione di small talk – con Michela Colasante sembra essere il primo su WineInternetMarketing.it.
E’ decisivo lo “small-talk”: la conversazione di contorno per costruire la relazione. Quando non stiamo ancora parlando di affari, non stiamo trattando e nemmeno raccontando il nostro vino. Ci serve saper intrattenere e accogliere il nostro cliente: quando lo andiamo a prendere all’aeroporto, quando siamo a cena, quando parliamo di calcio. Saperci esprimere in modo agevole in quei momenti diventa più importante che conoscere esattamente tutti i termini tecnici del vino.
Note alla puntata:
Michela Colasante di Beecome – linkMichela su Linkedin – linkMichela su Facebook – link02:40 Gli italiani e l’inglese: questione di relazione05:15 L’inglese prima e dopo gli affari06:50 Lo small- talk in inglese per vendere il vino10:20 Non solo l’inglese: il cinese, il russo, …11:35 Intermedio, autonomo, avanzato. La differenza tra cavarsela e capire le necessità di chi abbiamo davanti13:45 Gli errori che facciamo come italiani quando parliamo in inglese14:45 Ma la lingua inglese non è il primo problema17:50 L’inglese scritto: le email che mandiamo22:15 Chi sta facendo le traduzioni per il nostro vino?24:45 La prima che possiamo fare: gli strumenti online, i video, i ted talks, gli articoli e le pagine da cui trarre spunti29:00 Parla, parla e ancora parla con qualcuno, via skype o al telefono: buttati, con un amico o con un cliente.
Puoi ascoltare l’intervista audio, cliccando in alto in questo articolo. Qui sotto c’è la completa trascrizione.
Stefano: Benvenuta Michela!
Michela: Grazie Stefano, buongiorno!
Stefano: Allora, Michela Colasante, vicentina di Schio, se non sbaglio. Trainer, interprete, traduttrice freelance in inglese, italiano e spagnolo, e ha un background economico-commerciale: lavora da tempo con export manager nelle piccole e medie imprese, ha un’azienda che si chiama Beecom e accompagna persone e aziende, e prodotti, nel processo di internazionalizzazione del Made in Italy, insomma. La cosa che mi piace davvero e per cui Michela è qui, è che il suo approccio rispetto alle lingue è molto orientato alla comunicazione e al marketing, e che la sua esperienza è particolare anche nel mondo del vino. E quindi sei perfetta, insomma, per Wine Internet Marketing. Senti Michela, partirei dal problema – se c’è un problema, ce lo confermerai tu – il problema con l’inglese: si dice che noi italiani ce la caviamo sempre, che alla fine ci facciamo capire e che in qualche modo sopperiamo, forse, a delle carenze con la nostra capacità di comunicazione. Ma questo è vero? Ed è vero in che misura?
Michela: È vero nel senso che la capacità è un po’ uno stereotipo, però effettivamente lo scontro nell’esperienza concreta e quotidiana che l’italiano, attraverso la gestualità e la sua capacità comunque comunicativa di entrare in empatia con il cliente o con un business partner internazionale, di qualunque cultura e provenienza sia, questa capacità dell’italiano è nota. Però effettivamente, conoscere la lingua, conoscere delle sfumature, conoscere in particolare la cultura del cliente o della persona con cui ci si interfaccia, fa la differenza. Nel senso che è importante che passi il messaggio, è importante creare la relazione, soprattutto se si vuole fare business nel lungo termine. Però, diciamo, sì, riuscire ad accogliere un cliente o comunque porsi nel modo giusto quando si va a visitare il suo paese e quando si entra in relazione con lui, è fondamentale: quindi non basta solo riuscire ad essere simpatici o comunque accoglienti, riuscire a comunicare nel modo giusto, ma effettivamente conoscerne la cultura e la lingua e soprattutto le differenze culturali, può fare la differenza, per non perdere opportunità di business e per calarsi un po’ nella realtà del cliente e capire cosa è effettivamente importante per lui, quindi non solo un discorso linguistico, ma anche un approccio multiculturale, e interculturale direi più che altro…
Stefano: Quindi hai già introdotto un paio di questioni, che vanno un po’ al di là della questione tecnica che forse, credo, sia superata, nel senso che ciascuno sa raccontare sé stesso, il proprio prodotto, l’azienda, magari le sfumature tecniche. Ciò che forse, ci stai dicendo, in cui siamo più deboli è nel creare questa relazione con una capacità linguistica che sappia non soltanto accogliere, ma creare la fiducia e quella naturalezza che forse richiedono le relazioni prima umane e poi commerciali.
Michela: Certo. Infatti la relazione, soprattutto in un settore dove effettivamente il cliente, o comunque il partner – possa essere un buyer, un importatore, un distributore o anche un agente – quello che ricerca è l’“Italian lifestyle”, quello che noi chiamiamo “Italian mood”: tutto quello che ruota attorno al vino in sé o a una piacevole serata in compagnia, e quindi tutto quello che riguarda la socialità e lo stare assieme e quindi la convivialità, cioè tutti questi aspetti – in questo settore in particolare – contano molto di più che non magari la conoscenza specifica di alcuni dettagli tecnici. Quindi, creare una relazione di lungo termine, e questo si fa una volta che si acquisisce una competenza linguistica che ci permette di essere sciolti e di avere anche una sorta di autostima e sicurezza quando ci si interfaccia con il partner straniero in lingua, ma anche la conoscenza culturale che ci permetta di far stare a proprio agio il nostro interlocutore proprio in queste situazioni conviviali: quindi, non solo ad una fiera o ad un evento, ma anche ad una cena… perché sappiamo, appunto, che gli affari soprattutto in questo settore si fanno a cena, si fanno davanti ad un bicchiere di vino e si fanno in una situazione anche magari informale, dove però si deve creare una piacevole atmosfera.
Stefano: Quindi saper parlare del tempo, del calcio, di quello che sta succedendo magari all’aeroporto, a cena, ad una situazione di incontro, diventa importante.Michela: Certo, è tutto quello che è lo “small-talk”: tutta questa conversazione di contorno, che però non è più contorno, ma che diventa parte integrante della conversazione quando non parliamo in dettaglio di affari, di una trattativa o di una negoziazione o del nostro prodotto a livello più tecnico, ma sapere intrattenere l’interlocutore, come dicevi tu, quando lo andiamo a prendere all’aeroporto, quando siamo a cena… essere informati su quello che succede a livello internazionale, perché avere degli argomenti o comunque una conoscenza concreta dell’attualità, e quindi dei temi principali, e anche quello che avviene all’interno del suo paese perché effettivamente, se ci pensiamo, è importante – che ne so, se andiamo in Germania – sapere che sono in atto le elezioni o che c’è qualche tema che a loro sta particolarmente caro, anche se poi sappiamo che ci sono dei temi “sensitive”, un po’ sensibili o rischiosi, su cui è meglio non avventurarsi, come la politica, la religione o qualche altro tema un po’ più ostico. Però, saper parlare del tempo, saper parlare dell’attualità o dell’andamento generale del business o comunque di temi poco pesanti…
Stefano: Cioè, se parliamo adesso con un americano di USA, è meglio non parlare di Trump e Hilary…
Michela: Meglio non parlare di Trump e Hilary perché non sappiamo chi abbiamo di fronte, quindi non sappiamo effettivamente da che parte si schiera, però è indispensabile sapere che sono in corso le elezioni e che quindi una grossa fetta del pubblico è un po’ coinvolta da questa cosa, quindi segue i dibattiti, segue i confronti (scontri-confronti!), e quindi essere informati su questo chiaramente fa la differenza: può starci la battuta, magari sempre un po’ con leggerezza, senza addentrarsi troppo nel dettaglio e soprattutto se si tratta del primo incontro. Poi, è chiaro che a mano a mano che conosciamo il nostro interlocutore, e mano a mano che troviamo del terreno in comune – perché alla fine è quello l’obiettivo, trovare delle cose che abbiamo in comune, degli interessi, che possono essere un’attività sportiva, qualcosa che riguarda la famiglia… anche se, anche la famiglia, al primo approccio, può essere un argomento un po’ ostico – però poi a mano a mano che si acquisisce confidenza, sono tutti elementi che arricchiscono la relazione e che rendono anche bello il business. Del resto, noi facciamo business con le persone, non con i prodotti e né con le aziende, quindi trovare cose in comune con il nostro interlocutore-cliente è la cosa più bella per questo scambio anche a livello personale, e non solo commerciale e professionale.
Stefano: Ma la domanda è: quindi fare questa cosa è piuttosto complicata, nel senso che prevede, al di là di un’attenzione al nostro interlocutore – che riguarda anche la sua cultura e il suo modo di rapportarsi a noi, di percepirci, i suoi gusti – prevede anche una conoscenza linguistica forse un po’ più approfondita o diversa da quella che abbiamo squisitamente tecnica del nostro settore… come si fa? Da dove si parte?
Michela: La conoscenza di base della lingua – e qui stiamo parlando dell’inglese, anche se poi potremmo aprire delle parentesi, nel senso che ci rendiamo sempre più conto che l’inglese ormai non è più sufficiente: stiamo parlando dell’inglese come lingua franca internazionale, come lingua degli scambi, lingua commerciale, però vedo sempre più aziende, soprattutto in questo settore, che investono sul cinese, investono sul russo, quindi fanno della formazione specifica, hanno dei contatti, o addirittura assumono del personale che ha queste competenze linguistiche che vanno anche oltre la lingua inglese… perché ormai diciamocelo, l’inglese non è più sufficiente se si vuole effettivamente approfondire, internazionalizzare su mercati diversi, su mercati anche emergenti o in forte sviluppo e quindi, tornando all’inglese, la conoscenza intermedia non è più sufficiente…
Stefano: “Intermedia”, quindi il livello di riferimento che tu prendi è l’intermedio.Michela: Diciamo che un livello intermedio è anche difficile da definire, nel senso che, senza entrare nel dettaglio di quelli che sono i livelli ufficiali della conoscenza di una lingua straniera…
Stefano: Puoi aiutarci a farci capire?
Michela: Per un livello intermedio, diciamo, il Quadro di Riferimento Europeo identifica la conoscenza di una lingua come utente autonomo, utente avanzato: queste sigle che vanno in B1-B2… un C1-C2 già arriva alla conoscenza molto avanzata della lingua, fino ad arrivare ad un C2 che è un madrelingua. Diciamo che un classico B1 identifica una persona che se la sa cavare in alcune situazioni può essere sufficiente fino ad un certo punto, nel senso che comunque le sfumature e i dettagli per raccontare un prodotto, ma anche per avere un’attenzione superiore al cliente, quindi creare questa relazione e mettersi anche nei panni del cliente, capire quali sono le sue necessità – che è quello, lo scopo principale della relazione commerciale – può richiedere un livello, una conoscenza della lingua più avanzato. Quindi io direi che un B2 potrebbe farci stare tranquilli dal punto di vista linguistico. Poi però, quello che a me piace dire ed è ciò su cui punto molto quando parlo con gli imprenditori o con le aziende, è la conoscenza commerciale e l’approccio giusto al cliente che va oltre un aspetto meramente linguistico, e quindi proprio cercare di entrare in empatia con il cliente, cercare di capire quali sono le sue esigenze, e cercare di capire qual è il motivo per cui lui entra in affare, in relazione con noi.
Stefano: Perché poi pensavo – prima leggevo il tuo profilo – tu ti rapporti spesso alle piccole e medie imprese, che peraltro è un profilo abbastanza tipico del nostro vino. Nella piccola o media impresa, come si sa, si fa tutto: il proprietario, soprattutto, è chiamato a diverse occasioni di relazione, che sono il telefono, la fiera, la relazione vis-a-vis, magari in cantina o in un altro contesto. Ecco, cosa succede in una fiera, per esempio? Partiamo da questa situazione abbastanza tipica: rispetto alla lingua, tu che cosa osservi? Quali sono gli errori che noti?
Michela: Allora, al di là degli errori in sé, diciamo che a livello tecnico-linguistico l’errore tipico dell’italiano è che si dimentica le s del plurale o si dimentica la s alla terza persona, pensa in italiano e quindi cerca di tradurre la sintassi italiana e la costruzione italiana in inglese, il che non funziona, perché come sappiamo l’inglese ha un approccio completamente diverso, e quindi ha una struttura che richiede un approccio diverso rispetto alla sintassi italiana. Ma al di là di questo, l’errore principale secondo me consiste nel non saper quantificare a priori quelli che sono magari i propri punti di forza o i punti chiave, quelli che vorremmo rimanessero impressi nella mente dell’interlocutore, cioè come vorremmo poter attirare la sua attenzione, come vorremmo lui ci ricordasse, o le caratteristiche della nostra storia e del nostro prodotto che noi vorremmo lui si ricordasse… del non averli chiari ben chiari in testa fin da subito, e quindi di non riuscire a rendere in poco tempo, e in maniera abbastanza coincisa, i punti focali: questo avviene soprattutto quando nelle fiere, mock-around tasting, quindi dove ci sono degli eventi di degustazione, e dove il cliente stesso ha occasione di incontrare molti potenziali fornitori, quindi molti potenziali partner, diventa essenziale riuscire ad attirare la sua attenzione con un qualcosa di particolare, con un elemento che ci contraddistingua con la nostra identità. Questo, in italiano come in inglese, è una delle carenze che, secondo me, noi notiamo agli eventi o che comunque adesso si sta un po’ colmando, che però finora è stato un po’ il punto critico, perché sì la conoscenza del vino, certo la conoscenza tecnica, però anche la conoscenza del mercato e la conoscenza dell’approccio più idoneo a livello comunicativo del nostro cliente – che può essere cinese, giapponese, americano, quindi con un approccio totalmente diverso, non solo al business, ma anche alla vita – questo può fare la differenza: nel senso che se noi riusciamo a identificare in pochi secondi quello che effettivamente vogliamo che lui ricordi di noi, questo lo dovremmo saper fare non soltanto in inglese ma anche in italiano.
Stefano: Quindi ci stai dicendo: occhio, che qualche volta la questione non è l’inglese, ma è una questione a monte di aver identificato bene qual è il messaggio che vogliamo lasciare, forse i punti di forza che abbiamo, laddove vogliamo e possiamo distinguerci rispetto a un mercato che ha concorrenza e che è magari disattento nell’ascoltarci, che ci concede poco tempo in varie occasioni, come ad una fiera. Senti, ma con questo inglese, noi come siamo piazzati rispetto agli altri, rispetto alla lingua? Cioè, è possibile dire che noi italiani, soprattutto nel mondo del vino, siamo più o meglio di altri paesi con cui facciamo la gara nel vino?
Michela: Mah, allora. È risaputo che l’italiano medio non ha un’ottima conoscenza della lingua, non è molto famoso per sapersi destreggiare con le lingue straniere, e qui poi c’è chi dà la colpa al sistema scolastico…
Stefano: C’è qualcuno messo peggio di noi, oppure noi siamo i peggiori?
Michela: Guarda, possiamo dire che a livello europeo, messi peggio di noi, o comunque simili a noi, possono essere i francesi o gli spagnoli… anche loro con le lingue straniere non se la cavano molto, dobbiamo dire la verità. Poi chiaro, gli inglesi oe gli americani non hanno nessun tipo di problema, perché loro hanno questa cosa del passepartout, quindi loro con l’inglese vanno dappertutto e ritengono che non sia importante per loro imparare nessun’altra lingua straniera. Però stiamo parlando un po’ per stereotipi. È chiaro, io ho conosciuto molti wine export manager, comunque persone giovani e meno giovani che hanno investito nella formazione linguistica, italiani che magari hanno studiato all’estero, che hanno una formazione completa, sia commerciale che di marketing, e quindi si possono proporre anche come figure per le cantine e per queste aziende che si vogliono internazionalizzare, quindi è difficile fare una considerazione generale, anche se effettivamente c’è un gap abbastanza significativo tra l’italiano e il tedesco o i nord-europei, che effettivamente hanno una conoscenza linguistica decisamente superiore alla nostra, e che quindi possono avere un vantaggio competitivo da questo punto di vista. Però, ripeto, ci sono dei giovani o anche comunque degli imprenditori non più giovanissimi che stanno investendo molto nella formazione linguistica, che hanno capito molto l’importanza dell’apprendimento della lingua, ma anche di una formazione più completa a livello comunicativo e a livello di approcci interculturali, e quindi stanno investendo non solo nell’inglese, ma anche – come dicevamo prima – in lingue emergenti: nel cinese, nel russo, e in altre lingue che permettano loro di avere proprio un approccio diretto con il cliente senza l’uso di intermediari…
Stefano: Perché invece spesso, c’è magari l’intermediario, in altre forme di interazione. Non so, pensavo per esempio a quando si scrive via email: via email passa di tutto, passano questioni organizzative, logistiche, commerciali, quindi lì dentro ci sono poi anche linguaggi tecnici differenti… Cosa osservi? Cosa succede, in questo caso, nelle aziende, tipicamente?Michela: Ci sono ancora aziende – magari le più piccole o le meno strutturate, o chi non ha effettivamente del personale specifico che li supporti nel back office, e quindi poi nella gestione della comunicazione commerciale anche al telefono o via email – che utilizzano Google Translate e tutti questi strumenti che effettivamente permettono comunque di comunicare in qualche modo…
Stefano: Di farsi capire.
Michela: Ecco, però è da prendere con le pinze: sappiamo che ci sono, oltre a Google Translate, anche altri strumenti online che per carità, se proprio uno deve capire un documento, magari qualche aiuto ce lo possono dare, però è molto rischioso affidarsi a questo genere di strumenti per comunicare. Poi, l’efficacia e l’efficienza della comunicazione scritta richiedono delle competenze diverse, non solo linguistiche appunto, ma anche proprio di analisi o di comunicazione: anche solo la traduzione di un sito internet o comunque i post sui social… perché chiaramente adesso i social sono sempre più utilizzati, soprattutto in alcuni mercati dove il target che vogliamo raggiungere è proprio iper-connesso, e quindi si affida a questi strumenti per avere informazioni sul prodotto. E quindi la comunicazione scritta richiede delle competenze che vanno oltre, quindi chiaramente…
Stefano: E lì come si fanno queste traduzioni? Mediamente, tu osservi che sono fatte con attenzione, cura, da persone che sanno l’inglese e sanno tradurre, o no?
Michela: Diciamo che adesso c’è una sorta di cambiamento, nel senso che l’azienda stessa si è convinta che effettivamente una traduzione fatta da un professionista, o comunque affidarsi anche a del personale madrelingua in loco, che può essere l’agente, un importatore locale cinese o russo o americano, può fare la differenza. Altrimenti – fino a poco tempo fa, ma tutt’ora si nota ancora – l’affidarsi al dipendente, all’impiegato, a chi si occupa di back office, a chi si risponde al telefono o a chi fa le email al cliente, per le traduzioni: nel senso che un po’ si nota la traduzione un po’ – passami il termine – “casalinga”, che magari riesce a far capire il concetto, però non dà un’immagine di professionalità o di serietà che può dare effettivamente la traduzione affidata al professionista o al proprio business partner in loco, e che quindi ci può dare proprio un’immagine più seria, più professionale: ci fa percepire come chi sta investendo a lungo termine sul mercato, perché se io riesco a fare una traduzione in inglese – ma anche in altre lingue – professionale e che venga anche adattata al contesto culturale in cui io mi voglio proporre, chiaramente il messaggio che passa è: questa persona o questa azienda sta investendo in questo mercato e non si è accontentata di tradurre dall’italiano all’inglese, dall’italiano al cinese o al russo quanto appare sul sito. Cioè, non è una mera riproduzione in un’altra lingua del contenuto, perché ci vuole anche uno studio di come viene percepito dal mercato di riferimento questa comunicazione, quindi ogni mercato vorrebbe uno studio a sé di quella che è la comunicazione migliore: il lancio di un prodotto o anche il packaging, o la modalità per arrivare al target di riferimento può essere diversa. Come sappiamo, i millennials cinesi, per raggiungere loro, per raggiungere delle persone di certa fascia d’età, in un mercato come la Cina, che è un mercato enorme adesso, in via di espansione per il vino italiano, vuole determinati canali, quindi richiede una comunicazione mirata, fatta in un certo modo, fatta nella loro lingua… Quindi, il tema linguistico lascia spazio anche a un tema di comunicazione molto più ampio.
Stefano: Beh certo. Molto spesso – questa è una questione che mi sta molto a cuore – ci si occupa di portare attenzione sul proprio sito, traffico, visitatori, si investe in pubblicità, poi si fa molta poca attenzione a quello che accade sul proprio sito. Ti chiederei ancora un’altra cosa: qual è il primo step per chi ha l’esigenza o sente una debolezza in questo caso, perché non si può sapere l’inglese perfettamente, non si può immaginare di diventare madrelingua. Tu cosa consigli a chi si rivolge dicendo “Guarda, io ho un problema con l’inglese, credo che dovrei impararlo meglio”, ma qual è il primo passo da fare?
Michela: Certo, beh, diciamo che al giorno d’oggi, online, ci sono molti strumenti per chi vuole apprendere una lingua o perfezionarla, perché diciamo che se per la lingua c’è già uno zoccolo duro, a scuola o comunque nel percorso precedente c’è già stato un approccio linguistico e quindi uno non si affaccia per la prima volta al mondo linguistico, strumenti ce ne sono. Nel senso che è molto importante ascoltare: ci sono film, podcast, registrazioni, YouTube… ci sono molti strumenti al giorno d’oggi che ci permettono di entrare in contatto con la lingua, e quindi di ascoltare anche persone provenienti da diversi paesi, comunque anche di percepire le differenze di accento, pronuncia, vocabolario e di lessico, se parliamo dell’inglese. Strumenti per ascoltare la lingua ce ne sono moltissimi, ce ne sono molti in televisione, molti online, quindi l’ascolto secondo me è molto importante, perché vedo che è uno dei punti… l’ascolto poi chiaramente, nella lingua parlata, è altrettanto importante, però l’ascolto sarebbe già un buon primo passo per avvinarsi e perfezionare la lingua. Quindi, se si ritrovano… che ne so, mezz’ora, un’ora, due ore a settimana per ascoltare qualche video… ci sono anche i “ted talks”…
Stefano: Bellissimi.
Michela: Io li consiglio sempre anche a chi frequenta i corsi, perché parlano comunque di temi di diverso tipo, quindi uno può comunque trovare qualcosa di suo interesse. Perché se c’è l’interesse, se c’è la passione su un argomento o su un tema, diventa molto più facile anche l’apprendimento, e quindi se troviamo anche un tema di nostro interesse, anche su questi speech che fanno nei teatri internazionali, possiamo ascoltarli con diversi accenti da persone native speakers ma anche non native, e quindi sentiamo come parla un tedesco o un norvegese la lingua inglese, oltre ai madrelingua. Quindi l’ascolto è secondo me molto, molto importante. Poi, è chiaro, c’è comunque molto materiale, quindi uno volendo può anche leggere online: se il tema di suo interesse è capire come potrebbe presentare al meglio il suo prodotto, potrebbe semplicemente andare online e ricercare dei produttori californiani, come presentano la propria azienda o il proprio vino, e allora lì si comincia ad acquisire del vocabolario. Quindi strumenti ce ne sono molti. Poi è chiaro, i nostri corsi sono molto più specifici perché lì trattiamo in toto l’aspetto commerciale e tecnico – perché parliamo anche molto di vocabolario specifico per descrivere il vigneto, per descrivere un vino – quindi diamo vari strumenti per permettere la comunicazione, sia tecnica che commerciale. Però ecco, diciamo, al di là del corso, che appunto può essere di base, avanzato… si cerca sempre di partire dal proprio livello e vedere qual è il nostro primo interesse: cioè, mi interessa più acquisire della terminologia tecnica, o mi interessa più acquisire un approccio di trattativa interculturale, quindi la negoziazione con dei paesi in cui magari non sono abituato a fare business? In base a quello, uno può scegliere anche un percorso di formazione specifico, altrimenti io direi che per iniziare, online il materiale ce n’è molto. Io consiglio molto l’ascolto e magari la lettura. Per non parlare poi, chiaramente, se uno ha la possibilità di sottoporsi alla lingua parlata: voglio dire, se hai un amico che vive all’estero, se hai il cliente americano anziché scrivere la mail, magari con Google Translate, chiamalo. Esponiti al disagio di dovertela cavare, e la pratica è la cosa che assolutamente aiuta di più, quella che fa fare la differenza: più hai l’occasione di parlare la lingua, e di sentire loro che tipo di vocabolario usano, le espressioni idiomatiche, i modi di dire, i proverbi… più sei esposto alla lingua di un madrelingua e più questo ti aiuta con la pratica e nel perfezionamento. Ripeto, online ci sono molti strumenti: se abbiamo amici o parenti o clienti oltreoceano, parliamo e cerchiamo occasioni di contatto, via Skype, al telefono… gli strumenti non mancano, sicuramente.
Stefano: Eh sì. Dici “gli strumenti non mancano”, stiamo parlando via Skype… io parlo con il mio professore via Sky – Ciao Richard, il mio professore di inglese – quindi sì, anch’io posso dire la mia sugli strumenti online di inglese, magari può essere un’occasione per un’altra trasmissione. Io ti ringrazio molto, Michela, e grazie a tutti quelli che hanno ascoltato questa puntata. Alla prossima, see you soon!
Michela: Grazie a tutti! Ciao!
Stefano: Ciao!
 

Wednesday Oct 12, 2016

Che cosa ne sanno loro del nostro vino? Che cosa ne sappiamo noi di come funziona da loro?
L'articolo Gusti, mercati e trend: come vendere vino negli Stati Uniti – con Laura Donadoni sembra essere il primo su WineInternetMarketing.it.
Come vendere vino negli Sati Uniti. Che cosa bisogna considerare?
Quando sono stato a San Francisco e in Napa Valley una delle cose che più mi hanno colpito è la difficoltà che avevano alcuni produttori che incontravo a inquadrare il vino italiano, anche i più noti. "Ne avete così tanti e noi siamo così attratti da questa varietà ma per noi non è semplice capire - mi ha detto durante una visita una autorevole produttrice di Sonoma. Facciamo già fatica anche a capire da dove arriva, dove si trova in Italia il posto di cui ci state parlando".
In questa puntata ci occupiamo anche di questo con Laura Donadoni, giornalista, blogger e wine ambassador che vive a San Diego, in California. Laura conferma:
Durante una wine conference, qui in California, un produttore italiano ci ha fatto degustare un Teroldego. Tra i blogger e i giornalisti presenti al tavolo nessuno sapeva che cosa fosse il Teroldego. Che avesse una qualche idea di che razza di vino fossse.
Ci sono dunque alcune cose che diamo per scontate ma che scontate non sono per il vino italiano negli Stati Uniti.Non solo la conoscenza ma i mercati, le leggi, gli stili di vita e di consumo, i trend.
Note alla puntata:
01:45 Laura Donadoni ovvero "Laura Wines" - link05:00 Come sta il vino italiano negli Stati Uniti06:00 La crescita in valore07:45 I vini italiani che tirano08:30 Il vino hipster10:20 Trovami l'importatore13:30 Le valutazioni da fare prima di entrare nel mercato degli Stati Uniti14;45 I vitigni italiani coltivati negli Stati Uniti17:30 Il prosecco e il moscato di Canelli19:00 Il palato degli americani20:45 Pregiudizi buoni e cattivi (valori e divalori) con gli italiani24:30 I millennials, i soldi in tasca e gli stili di vita28;00 Le app e Wine Searcher30:00 I punti di Parker & Co. e i prezzi dei vini33:15 Di che cosa ha un bisogno un piccolo e medio produttore italiano34:45 I consorzi e i fondi OCM36:30 Che cosa davvero ne sanno i blogger e i giornalisti del vino italiano
Puoi ascoltare l'intervista audio, cliccando in alto in questo articolo. Qui sotto c'è la completa trascrizione.
Stefano: Benvenuta, Laura.Laura: Grazie, ciao a tutti!
Stefano: Allora, Laura è originaria di Bergamo, ha 34 anni, è giornalista professionista, lo è stata per la radio e per la carta stampata, insomma, ci racconterà poi… E vive a San Diego, in California, da quasi tre anni, e si occupa di Comunicazione e Marketing per le cantine e i consorzi vinicoli italiani sul mercato USA. È sommelier certificata – ci racconterà anche di questo – e si occupa anche di educazione, di Wine Ambassador, è anche Social Media Manager, gestisce eventi, ed è consulente per il posizionamento sul mercato americano. Collabora con magazine di settore, in Italia e in America: io per esempio l’ho scoperta leggendola proprio su Gambero Rosso e su Wine Meridian. Laura, sei giornalista. Prima del vino, quindi, che cosa facevi?Laura: In realtà, come appunto stavi raccontando tu, io nasco come giornalista quindi la mia strada, fino a che non si è incrociata con il vino, è stata soprattutto di cronaca, di politica, di attualità, sia per la carta stampata sia per la radio, come appunto già raccontavi. Poi a un certo punto cos’è successo? La faccio breve per non raccontare la storia della mia vita in cinque minuti, che sarebbe penso noiosissima; a un certo punto è successo che nei miei vari viaggi in giro per il mondo ho deciso di raccontare qualcosa di positivo, e il vino e il cibo sono sempre stati qualcosa che mi hanno emozionato e, come poche cose al mondo, riescono a trasmettere emozioni in modo trasversale, con tutti i sensi: con la vista, con l’olfatto, con il palato… e quindi trasformare in parole queste emozioni, e quindi veicolare un messaggio di chi produce vino – o di chi cucina, nel caso del cibo – è qualcosa che mi ha sempre affascinato, ed allora ho deciso di dedicarmi a questo settore, di prendermi un po’ di certificazioni come quella da sommelier eccetera, quindi di diventare un po’ più esperta, e di scrivere appunto di cibo e vino.
Stefano: Ho capito. E così arrivi a San Diego?Laura: Arrivo a San Diego, sì. In realtà, questa cosa del vino e del cibo nasce prima, arrivo a San Diego per altri motivi personali, perché mio marito si trasferisce qui e quindi niente, decidiamo di trasferire tutta la famiglia – siamo noi due – e quindi ci siamo trasferiti in California, e in California qui è un regno. Nel senso, gli Stati Uniti è lo stato migliore per parlare di cibo e vino perché c’è una sensibilità maggiore, perché la California è lo stato dove si produce praticamente tutto il vino negli Stati Uniti (la maggior parte) e quindi ho trovato terreno fertile. In più gli Stati Uniti – come ben sai, e lo saprà anche chi sta ascoltando – sono il primo importatore per i vini italiani. Quindi mi si sono aperte una serie di opportunità in questo settore, per poter mettere a servizio le mie caratteristiche, la comunicazione, il saper parlare e scrivere sui vini italiani in tantissimi ambiti.
Stefano: E così diventi Laura Wines, ti si trova così in rete!Laura: Esatto, mi trovate come Laura Wines, che è il mio blog.
Stefano: Senti, partiamo su questo: come sta il vino italiano in USA?Laura: Allora, il vino italiano in USA sta molto molto bene, nel senso che le percentuali di importazione continuano ad accrescere di anno in anno. Anche gli ultimi dati del 2015 ci danno un +5,3%, mi sembra, nelle importazioni di vino italiano, e quindi è un periodo magico ed è tra l’altro un mercato costante, cosa che non è da sottovalutare, perché sappiamo benissimo che abbiamo avuto exploit come la Russia – parlo per i nostri produttori che esportano all’estero – dove c’è stato un exploit che poi si è rivelato un po’ una bolla di sapone. C’è il mercato della Cina, che è fiorente ma chissà fino a quando proseguirà. Diciamo che gli Stati Uniti ci stanno dando soddisfazioni da decenni.
Stefano: Come si dice, un mercato maturo ma che ha ancora degli spazi. Senti, ci dicevi di una crescita sulla produzione, è anche una crescita in valore?Laura: È una crescita anche in valore, perché il consumatore negli Stati Uniti sta diventando più consapevole, quindi innanzitutto dobbiamo capire che stiamo parlando di un continente: gli Stati Uniti non sono una nazione ma sono un continente, quindi abbiamo a che fare con abitudini, stili di vita, modi di intendere il vino completamente diversi se parliamo della California o se parliamo della East Coast, per esempio. E quindi, dicevo, c’è più consapevolezza: pian piano, gli americani stanno imparando ad apprezzare il vino come bevanda quotidiana. Sembrerà una banalità, ma noi italiani siamo cresciuti con l’idea del bicchiere di vino a tavola, quindi dell’abbinamento cibo-vino. Il vino è sempre stato parte della nostra vita sin da piccoli, con i nostri genitori e i nostri nonni. Qui negli Stati Uniti non succede questo, quindi adesso abbiamo le nuove generazioni che pian pianino si stanno sempre più avvicinando al vino e stanno consumando il vino in modo più consapevole, in che senso? Andando a scegliere, andando a conoscere i vitigni, andando a prendere informazioni sulle cantine e sulla qualità del vino eccetera, cosa che in passato non si faceva. Questo è sempre stato un paese dove si beveva la birra, punto. E invece ora, pian pianino, i “millennials” – come li chiamano, le nuove generazioni – stanno dimostrando un’attenzione maggiore al consumo consapevole di vino. Quindi la crescita non è solo in termini di numeri ma anche in tipologie di consumo diverse.
Stefano: Certo, quindi c’è una differenziazione che va alla ricerca della qualità e della diversità. Senti, per aiutarci un po’ a chiudere questa veloce overview: quali sono i vini che tirano? E quali sono i nuovi trend rispetto, ovviamente, agli italiani sul mercato americano?Laura: Allora, ovviamente qua il re degli ultimi anni è il Prosecco, e continua ad essere il Prosecco. In generale, gli sparkling wines – gli spumanti, i vini frizzanti – stanno vivendo un periodo magico, e il Prosecco è in cima alla lista dei vini più esportati. Poi abbiamo i classici, quindi il Pinot grigio, che è anche uno dei vini che gli americani amano di più; abbiamo i nostri classici – però cominciamo a parlare di qualità in quel caso, quindi abbiamo gli Amaroni, abbiamo i Baroli, perché ovviamente sono vini di alta qualità riconosciuti a livello internazionale – e poi abbiamo adesso, negli ultimi anni, una nuova tendenza che qui viene chiamata “tendenza hipster”, con questo termine che praticamente significa “qualcuno che va alla ricerca di qualcosa di diverso, di qualcosa di originale, unico”…
Stefano: Al vino hipster non ci avevo ancora pensato! Interessante!Laura: Esatto, vedi? Possiamo già fondare una nuova moda! Comunque, dicevo, questa tendenza hipster porta appunto gli amatori e gli appassionati di vino a cercare quei vitigni autoctoni e indigeni, anche per quanto riguarda l’Italia, un po’ meno conosciuti, che quindi non avevano un grande mercato prima. Pensiamo all’exploit dell’Etna: i vini dell’Etna, nell’ultimo anno, hanno avuto un exploit pazzesco di vendite, e chi sapeva che cos’era il Carricante… cioè, io sfido che magari in Italia qualcuno non sa cosa sia il Carricante, o che vitigno sia, da che parte venga, e quindi abbiamo questa duplice faccia del mercato americano: da un lato “commercialone” – scusa per la parola terra-terra, però è per farmi capire – proprio tutto un discorso di consumo abbastanza medio e senza tante pretese, e dall’altro lato invece va a cercare proprio le particolarità.
Stefano: Senti, anche prima di questa intervista, mi raccontavi un po’ l’approccio che molto spesso hanno gli italiani e i produttori italiani quando hanno l’idea di entrare nel mercato americano, e allora qualcuno si rivolge a te… si dice che uno dei primi approcci è “trovami l’importatore”, no?Laura: Eh sì.
Stefano: La questione non è solo legata all’importatore, o trovare l’importatore: già ci dicevi prima che pensare agli USA come un mercato, ma in realtà è un continente perché dentro ci sono così tanti mercati locali che è impossibile equipararli. Ecco, quali sono le altre cose che non si considerano?Laura: Spesso e volentieri mi viene chiesto “Trovami l’importatore”, nel senso che tantissimi produttori in Italia capiscono che gli Stati Uniti sono un’opportunità, e quindi giustamente vogliono entrare su questo mercato. Non è facile, entrare su questo mercato. Come ti parlavo quando abbiamo avuto questa conversazione prima di decidere di fare questa intervista, spesso la gente mi scrive e mi dice “Guarda, ti mando i campioni, così li assaggi, e poi mi trovi qualcuno che li vende”. Innanzitutto, negli Stati Uniti il vino è considerato droga: cioè, è gestito dalla Federal and Drug Administration e ci sono tipo le warning, gli avvisi, sul fatto che può far male alla salute
Stefano: Anche quando andiamo sui siti delle winery americane bisogna sempre cliccare di essere maggiorenni.Laura: Come viene trattato a livello burocratico e di regole… per cui, ad esempio, io non posso ricevere campioni dall’estero, a meno che non passino tramite un distributore importatore, che la cosa è assurda, sembra un controsenso. Ma come? Io sto cercando un importatore, e devo passare da un importatore per farti avere i campioni? Sì, funziona così.
Stefano: Funziona ancora così, perché io, in un’altra intervista che si può trovare online e che avevamo fatto con Gabriele D’Errico di Winebow che ci raccontava di questa cosa della distribuzione… ce la vuoi ricordare com’è?Laura: Esatto. Funziona che, praticamente, qualsiasi vino che entra negli Stati Uniti, qualsiasi bottiglia, anche se si tratta di un campione o di un sample, deve passare attraverso l’approvazione della Federal and Drug Administration. Quindi il produttore deve prendere l’etichetta del proprio vino, scrivere i warning in inglese sul retro etichetta, scrivere il nome dell’importatore che riceverà il vino, perché lo possono solo ricevere gli importatori distributori, inviare tutta questa documentazione alla Federal and Drug Administration, ottenere l’autorizzazione a fare entrare questi campioni di vino negli Stati Uniti, e poi li puoi spedire. Tutto questo, ovviamente, richiede qualcuno qui che gestisca la cosa, l’importatore disponibile a ricevere i campioni, e tempo, perché comunque l’approvazione richiede tempo.
Stefano: Insomma, in Italia i produttori si lamentano tanto della burocrazia, dicono “Passiamo più tempo a…”, almeno alcuni piccoli, che una buona parte del nostro tempo troppo grosso è ad occuparci di quello, ma anche da voi, almeno su questi passaggi insomma…Laura: Esatto. Su questo non si scherza. Poi, per tutta una serie di altre ragioni a livello imprenditoriale, è tutto molto più snello, molto più veloce una volta che stai qua. Ma molto protezionisti rispetto al loro mercato, quindi qualsiasi cosa che arriva dall’estero deve andare sotto queste regole. Una volta che io ricevo i campioni, cosa faccio? Comincio a valutare e a decidere su quali stati questo vino potrebbe essere inserito, in quali mercati.
Stefano: Quali sono queste valutazioni che fai?Laura: Le valutazioni in base al prodotto, quindi si cerca di capire innanzitutto la tipologia di prodotto e i competitors già presenti sul mercato, quindi: è un vitigno autoctono poco conosciuto? Bene, a quali altri vitigni conosciuti lo possiamo assimilare? Quali sono i competitors che dobbiamo considerare? In quale fascia di prezzo si va ad inserire? È un vino che si può vendere al bicchiere, nella carta dei vini nei ristoranti negli Stati Uniti, perché qua calcolate che la vendita di vino al bicchiere è molto, molto diffusa: in Italia poche persone non ordinano una bottiglia mentre qua, siccome non la finiscono la bottiglia a pasto, ordinano spesso vino al bicchiere, quindi questa è una considerazione da fare. E quindi, mettendo insieme questo più i dati di vendita, più ovviamente gli importatori che hanno spazio nei loro listini perché attenzione: per esempio, in California, c’è un numero limitato di persone che ha l’autorizzazione a distribuire e a importare, e se tutte queste persone hanno un listino che ha già, non so per esempio, in carta tre Vermentini e tu devi inserire un Vermentino, sai sicuramente che non troverai spazio qui.
Stefano: Senti, ci dicevi prima che c’è una certa curiosità per i vitigni italiani, per la diversità, e mi sembra anche che ci sia una tendenza negli Stati Uniti a piantare vitigni italiani, no?Laura: Spesso di questo mi sto occupando parecchio con il mio blog, perché appunto vado a cercare tutti i produttori negli Stati Uniti che hanno scelto di piantare vitigni italiani perché mi piace andare a vedere come si comportano i nostri vitigni in condizioni climatiche di terreno e di terroir completamente diverse dall’originale, quindi mi incuriosisce tantissimo questa cosa, e ho assaggiato e sto assaggiando – ho in programma la prossima settimana altre escursioni di questo tipo – tantissimi esempi. Cosa succede? Qual è il misunderstanding di fondo? L’equivoco? È questo: praticamente concepiscono il vino per vitigni. Noi concepiamo il vino per luoghi, perché ovviamente non possiamo chiamare il Sangiovese solo Sangiovese, ma noi lo chiamiamo Brunello di Montalcino, Vino Nobile di Montepulciano: noi leghiamo il vino al territorio, cioè al terroir. L’unicità non è tanto il vitigno, cioè, a volte è anche il vitigno perché certi vitigni vengono coltivati soltanto lì, ma è il terroir, quindi il Barolo perché è il Nebbiolo coltivato a Barolo. Invece loro qui mettono enfasi sul vitigno, quindi per loro il vitigno è innanzitutto Cabernet, Chardonnay, Sangiovese, eccetera. E poi, quando gli vai a chiedere “Ma dove viene prodotto?”, spesso stanno bevendo e neanche lo sanno.
Stefano: Quindi questo allarga un po’ il giro della concorrenza, nel senso che se non è ben chiaro qual è il territorio che sta alle spalle, ecco, va bene un vitigno coltivato in Italia, ma anche lo stesso in USA.Laura: Esatto. Sì, hanno delle regole molto più larghe per quanto riguarda le appellazioni e le denominazioni. Si sta costruendo adesso il sistema delle denominazioni qui. Adesso cominciamo a leggere sulle etichette appunto “Napa Valley” e la denominazione… non so, Rutherford piuttosto che deve contenere almeno il 75% del vitigno prodotto in quell’area, ma altrimenti non c’è. E quindi questo apre praticamente il campo a “tutti possono coltivare tutto” per cui potenzialmente, io, in tutto il territorio degli Stati Uniti dove si coltiva vino, posso piantare il Sangiovese, posso piantare il Vermentino, posso piantare il Pinot grigio…
Stefano: Il Barbera? Io sono di Asti.Laura: Esatto! Posso piantare tutto.
Stefano: Anche il Moscato di Canelli mi sembra che ci sia in California.Laura: Il Moscato di Canelli c’è… qual è il problema del Moscato, se vuoi parlare del Moscato? È che il Moscato è un vitigno. Se il Prosecco è il vitigno glera coltivato in quell’area determinata che si può chiamare Prosecco, il Moscato – che sull’etichetta c’è scritto “Moscato” – è il vitigno, quindi qua negli Stati Uniti viene coltivato e sull’etichetta scrivono “Moscato”.
Stefano: Perché ci sono storie più recenti che già sapevano come andava il mercato e che appunto valeva la pena di differenziarsi con un nome che individuasse non soltanto il vitigno ma anche un luogo, ecco.Laura: Comunque, per fartela breve, questi esperimenti che stanno facendo qui, sono vini completamente diversi, non sono vini che si possono paragonare ai risultati che abbiamo in Italia su quel vino. Poi calcola che il mio palato è viziato dal fatto che se io assaggio un Nebbiolo, la mia prima lampadina che si accende quando assaggio un Nebbiolo sono i Nebbioli del Piemonte, quindi io mi aspetto quello da un Nebbiolo. Quando ne assaggio un altro coltivato qui, con 40°, sole 300 giorni all’anno ed escursione termica pari a 0, ovviamente il risultato è diverso. E quindi, per il mio gusto italiano non funziona.
Stefano: Ecco, “per il tuo gusto italiano”. Ma questo gusto italiano non è il gusto americano. La questione del palato non è secondaria.Laura: Esatto. Assolutamente non è secondaria. E quello a cui loro sono abituati è totalmente diverso da quello a cui siamo abituati noi in Europa: al di là del fatto, come ti dicevo prima, dell’abitudine e di essere cresciuti in un ambiente in cui il vino comunque faceva parte della tavola ed era parte della nostra vita, ma proprio a livello di sapori e di gusto, che passano dall’enogastronomia quindi dalla cucina fino al vino, qui le persone al 90% dei casi iniziano a bere vino da adulti, dopo che hanno trascorso la vita a mangiare in un determinato modo, che è totalmente diverso da quello a cui siamo abituati noi in Italia. Quindi i sapori, anche solo la concezione del salato e del dolce è totalmente diversa. Io, mi capita di insegnare Wine and Food a volte, in qualche classe, e faccio molta fatica a calibrare la valutazione di cose fondamentali come appunto il salato e il dolce o, parlando del vino, l’acidità, l’alcool, eccetera, perché mi rendo conto che il calibro è proprio diverso.
Stefano: Comunque c’è questo rapporto che, almeno a livello di immaginazione, gli americani hanno verso l’Italia, no? Pochi paesi colpiscono la nostra immaginazione come l’Italia. Leggevo, in un libro di John Hopper, “Italians” – lui è un corrispondente dell’Economist e del Guardian, insomma, scrive questa cosa… ecco, mi interessa anche dal tuo punto di vista, che sei italiana e da qualche anno adesso stai lì. Dentro ci sono pregiudizi, e quindi sia nella percezione dei valori ma anche degli svalori… questo gioca un ruolo, secondo te, nel rapportarsi anche al vino?Laura: Sì, sì. Assolutamente gioca un ruolo. Qui, io ti posso confermare la tua percezione che negli Stati Uniti comunque l’Italia è considerata la patria del buongusto e non solo a livello di cibo e di vino, ma anche a livello di moda, di estetica, di arte ovviamente. Quindi banalmente, ogni volta che qualcuno ti viene presentato, ti chiedono da dove vieni e dici che sei italiana, subito caroselli, sorpresa, “Ah, che meraviglia! Che fortuna!”, eccetera eccetera. La stessa cosa non capita quando uno dice che è tedesco, cioè, per dirti un esempio. Senza offesa ai tedeschi. Però, insomma, questa percezione e questo considerare gli italiani depositari di un certo gusto, di una certa estetica, è confermato. Resiste, ed è sicuramente qualcosa che noi, nel marketing e nella comunicazione dei nostri vini dobbiamo sfruttare, ed è la nostra forza, perché ogni volta che io vado a proporre a wine tasting dei vini italiani, ed io sono italiana, quindi parlo in inglese con questo enorme accento italiano… ma a loro piace capire l’autenticità, e quindi vogliono vedere questo: vogliono vedere i nostri piccoli paesi, i nostri piccoli produttori, capire che parlano dialetto e non parlano italiano, perché magari sono proprio produttori piccoli, contadini eccetera. Però dall’altro lato c’è bisogno, come spesso mi viene chiesto, di una comunicazione puntuale anche in inglese. Cioè, veicolare questo messaggio di noi italiani che abbiamo questa autenticità, questa tipicità di questi piccoli produttori, non vuol dire rimanere fermi dove siamo. Vuol dire trovare qualcuno che riesce a farlo passare questo messaggio, o attrezzarsi per comunicarlo, perché gli americani lo adorano, ma bisogna che lo capiscano, bisogna farsi capire su questo mercato.
Stefano: Cioè, tu dici, dopo le feste, bisogna anche parlarsi…Laura: Che poi, l’altro pregiudizio, visto che tu citavi valori e svalori, qual è? È il pressapochismo. Da un lato ti considerano baluardo del gusto, dall’altro però, se una cosa è fatta all’italiana… è un poco superficiale, si capisce e non si capisce, vai a fidarti... cioè, c’è anche il pregiudizio qui. Non è che tutto adesso è rose e fiori. Un italiano comunque deve dimostrare di essere americano nell’organizzazione, o comunque di essere una persona precisa, puntuale negli ordini e nei pagamenti, nella comunicazione, di sapersi far capire in inglese… perché sai quante persone partono qui per i viaggi in Italia, abbastanza preoccupati di non riuscire a comunicare? E quindi si iscrivono ai corsi di italiano perché pensano, credono che in Italia ancora nessuno parli inglese. Poi glielo si spiega, glielo diciamo, “No, ma guardate che adesso i giovani, insomma, tutti a scuola impariamo l’inglese, quindi se andate là non c’è problema”. Ma il pregiudizio di cui dicevi tu prima è questo, è la poca preparazione sul mercato internazionale. E invece noi questa cosa la dobbiamo smentire. Dobbiamo impegnarci.
Stefano: Certo. Senti, vorrei parlare di una cosa con te, che già accennavi un po’ prima, rispetto anche ai millennials e ai più giovani, perché uno dei temi che sembrano sempre più rivelanti per il consumo, è il contesto in cui si beve. Anche in Italia sta cambiando tanto. Ecco, su questo qual è lo stile di vita di un americano rispetto al vino?Laura: Prendiamo la California: è uno dei mercati, anzi, è il secondo mercato più fiorente degli Stati Uniti per quanto riguarda l’export di vino dopo New York – poi c’è la Florida e c’è la California – quindi comunque è un buon esempio. Qui, calcola che le persone, i giovani in particolare… se parliamo di millennials, cioè entro i 35 anni, lo stile di vita è questo: innanzitutto iniziano ad avere un lavoro che gli permette di spendere più soldi molto prima degli italiani. Quindi, se noi parliamo di un millennials italiano e di un millennials americano, posso garantirti che il millennials americano ha in tasca più soldi, generalmente. Lo stile di vita è “uscire di più”, complice il fatto che non cucinano, quindi la statistica dice che un americano medio mangia fuori 4 sere su 4 alla settimana, e i maligni dicono “le altre 3 ordina take-out”, praticamente non cucina mai! Quindi uscendo quattro volte a settimana, il consumo anche di bevande al ristorante, che potrebbe essere il vino visto che è in aumento questo abbinamento di cibo-vino, ma sono anche e soprattutto i cocktails: qui c’è l’abitudine di iniziare la cena o il pasto – in generale la cena, non il pranzo – con un cocktail. A stomaco vuoto ti spari subito… cioè, magari noi facciamo l’aperitivo con un altro bicchiere di vino o dell’altro cibo, qua invece si parte a stomaco vuoto con un cocktail.
Stefano: Cocktail alcolico?Laura: Sì, sì. Di solito sì. Per iniziare. E questo, quindi, influisce anche sulle vendite di vino, perché ci sono tantissimi cocktail che sono basati sui vini. Per esempio, il Prosecco può essere imputato anche al fatto che è un’ottima base, un ottimo blend per tantissimi cocktail. Poi loro adorano questa abitudine di fare il brunch, cioè di fare la domenica questo colazione-lunch, a metà strada tra la colazione e il pranzo in cui bevono fiumi e fiumi di cocktail basati su Prosecco. Questa è, diciamo, l’abitudine qui. Per concludere e rispondere alla tua domanda: sicuramente i millennials qui consumano di più fuori, non è detto che siano comunque più consapevoli sul consumo di vino. Questa cosa sta cambiando e sta aumentando, però c’è anche una ricerca a dei nuovi vitigni, eccetera eccetera, però c’è ancora tanto da fare sulla comunicazione con i millennials, e quindi stiamo parlando di nuovi media, di social network per rendere appunto il vino – in questo caso, visto che stiamo parlando di questo – qualcosa di abitudinario nel loro consumo di bevande fuori, al ristorante, oltre che a casa. Quindi c’è ancora strada da fare, però c’è già un cambiamento rispetto alle altre generazioni, questo possiamo dirlo.
Stefano: Sì, a proposito di questo c’è un aneddoto gustoso che ti chiedo però di raccontare alla fine, che ti è capitato… questi millennials dove stanno, dove incontrano il vino? Nelle app? Online? Nei forum?Laura: Ecco, questa è l’altra grande considerazione da fare: avendo a che fare con un pubblico che non è formato sul vino, ovviamente si cercano modi veloci per capire se un vino è valido, se un vino vale la pena acquistarlo o non vale la pena acquistarlo, e ovviamente i millennials, appunto questa generazione di giovani sotto i 35 anni, si affidano al web. E al web in particolare a che cosa? Alle app, quindi stiamo parlando di Vivino, Delectable Wines eccetera, Wine Searcher qui va tantissimo, e ha le critiche dei giornalisti.
Stefano: Ci sono tutti i vini italiani su Wine Searcher?Laura: No, non ci sono tutti i vini italiani su Wine Searcher, perché Wine Searcher praticamente mette insieme le review in inglese che trova sul web: è come Google, è come un motore di ricerca che va a cercare tutte le varie review sul web. Quindi, se il tuo vino magari viene esportato negli Stati Uniti ma non ha nessun sito che lo cita o che racconta due o tre indicazioni sensoriali del tuo vino, Wine Searcher fa fatica a trovarlo, e quindi non lo mette. Per cui ad esempio anche questa è una cosa da tenere in considerazione, se sei un produttore e se esporti. Quindi, dicevo, i giovani vanno a cercare le informazioni lì, e quindi questo apre a tutta una serie di riflessioni su “Allora, cosa dobbiamo fare?”, mandare i campioni ai giornalisti per farli recensire, non farli recensire, quanto vale il punteggio, se hai un punteggio vende di più, se non hai un punteggio vendi di meno; sono tutte valutazioni da fare in base a che tipo di vino vendi, quanta produzione hai, quanto vino esporti, dove esporti: esporti nei wine shop? Nei ristoranti di alto livello? Esporti nella GDO, nella grande distribuzione?
Stefano: E invece adesso, fuori dalle app, questi millennials, probabilmente… lo rileggo anche perché molti sono siti a pagamento, ma comunque vorrei anche parlare di Parker & Co, perché ovviamente per molti produttori, magari per quelli che si vogliono posizionare in alto alla cima della piramide, sono ancora un riferimento. Parlavo con un produttore che mi diceva: “Sì, adesso voglio mettere tanto Barolo perché io so che se arrivo a 86, quello lo posso vendere così e quindi…”, è proprio così?Laura: Qua funziona ancora così, nel senso che purtroppo, diciamo una decina di influencer e di giornalisti hanno comunque in mano il discorso delle review, e i siti di riferimento sono tre o quattro, in cui la gente va a vedere i punteggi, e spesso e volentieri se tu vai ad acquistare un vino all’enoteca o anche solo nei ristoranti che hanno la sezione con le bottiglie in vendita, indicano proprio… cioè tu vedi proprio l’etichetta davanti con il prezzo e i punteggi. Questo perché c’è un pubblico completamente disinformato, e si basano su questo nella scelta. Cioè, se hai 10 Baroli e 3 di questi Baroli hanno ricevuto dei punteggi, e tra questi 3 questo ha ricevuto più punteggi di altri, si dà per scontato che è più buono, e quindi vale il prezzo. Quindi purtroppo sì: le dinamiche logiche alle volte seguono ancora questo. Come uscirne o come bypassarle? Allora, da un lato c’è quella tendenza che ti dice: vado alla ricerca di qualcosa di nuovo, di sconosciuto, quindi chi va a cercare qualcosa di nuovo e di sconosciuto è aperto anche all’idea che questa cosa nuova e sconosciuta non abbia review e non abbia punteggi, quindi lì proprio si bypassa totalmente il sistema dei rating. Dall’altro lato, vuoi entrare nel sistema dei rating perché ti conviene, perché sei un grande produttore, perché esporti comunque un considerevole numero di bottiglie, e quindi vuoi provarci, bisogna pazientemente inviare campioni, aspettare che queste review vengano fatte, però essere anche aperti ad accettare dei punteggi che non sono quelli che uno sperava. Anche se lì poi, ovviamente, entrano tutte le dinamiche del “se il produttore collabora con la mia testata, vuoi che ti dia un punteggio basso?”
Stefano: Arriviamo dall’editoria.Laura: Esatto. Che qui si sa che le cose funzionano così, quindi ti dico, alla fine, cosa vale questo? Vale la pena se proprio uno è un grande produttore, ha grossi volumi da spostare e quindi vale la pena tentare questa strada per avere più chance di alzare il prezzo o vendere di più. Ma se, come penso siano il 90% dei nostri produttori italiani, vogliamo stare sulla qualità, sulla media e piccola produzione, questo sistema delle review non è fondamentale. Ci sono altre vie per raggiungere il pubblico negli Stati Uniti, che tra l’altro ci ama, ama le nostre unicità, che ama le nostre piccole cantine… quindi noi non abbiamo bisogno di Parker per arrivare a vendere quello che produciamo.
Stefano: E di cosa abbiamo bisogno? A questo punto la domanda te la sei chiamata.Laura: Abbiamo bisogno di valutazioni molto oculate. Quindi, se io fossi produttore di piccola-media produzione in Italia, sicuramente guarderei agli Stati Uniti, perché è un mercato che mi permette di vendere a un prezzo più alto su scala più ampia, perché è un continente e non è ovviamente un piccolo stato, quindi guarderei agli Stati Uniti. Farei una scelta molto oculata della persona o di chi mi rappresenta all’estero, cercando di avere un importatore valido, serio, reliable – come diciamo noi qua – quindi affidabile, e inizierei da un mercato, uno stato: è inutile entrare, cercare di andare a vendere dappertutto nei 52 stati. Bisogna selezionare e dire “ok, rispetto alla mia tipologia di vino, qual è lo stato in cui potrei avere più vendite?” La California. Oppure, non lo so, la Florida. Benissimo, cominciamo da lì, e poi pian piano vediamo. E poi ovviamente tutto questo deve essere subordinato a una comunicazione in inglese fatta con i fiocchi, a qualcuno che è comunque in grado di gestire tutta la situazione con gli importatori, le regulation, eccetera. Non voglio spaventare i produttori. Mi rendo conto che vorrebbe dire investire soldi per aggredire questo mercato ma, ragazzi, i consorzi e le associazioni di imprenditori esistono per quello, no? Voglio dire, l’Unione Europea mette anche a disposizione i fondi, gli OCM, per promuovere il vino nei mercati extra-UE: usiamoli, questi soldi. Ma usiamoli facendoli fruttare, non per fare iniziative così, giusto per spendere gli OCM. Facciamo degli investimenti che poi durano nel tempo. Investiamo sui siti in inglese, investiamo su persone che ci rappresentano all’estero negli ambienti giusti, nelle istituzioni, dove effettivamente riusciamo a raggiungere le persone appassionate di vino che possono essere il nostro consumatore. Quindi, le opportunità ci sono, bisogna soltanto rimboccarsi le maniche e fare delle valutazioni intelligenti
Stefano: E qui hai aperto un capitolo che merita altre decine di puntate su come investire i fondi strategicamente, e anche i fondi pubblici che citavi. Senti io, Laura, ti ringrazio tanto per le cose che ci hai detto, anche se ci sono un paio di notifiche che forse ti chiamano… senti però, ti chiedo di lasciarci con l’ultima cosa, per quell’aneddoto gustoso, che io almeno ho trovato gustoso, e che ci racconta probabilmente che la cultura, come anche accennavi tu, l’educazione al vino italiano è forse la sfida più grande, perché anche in mezzo a tutta questa curiosità o passione o naturale inclinazione all’Italia, accade anche che anche persone che si occupano di vino, che lo comunicano e che magari sono in rete influencer, blogger che ne scrivono, e magari non necessariamente lo conoscono, il vino italiano.Laura: È vero, sì, è assolutamente così. Spesso e volentieri a me capita, per il mio lavoro, di avere a che fare con colleghi blogger, giornalisti statunitensi che, appunto, recensiscono vini online, e spesso nelle conversazioni ci sono degli strafalcioni sui vini italiani veramente degni di… adesso non voglio fare nomi di colleghi che hanno scritto, fatto e detto, però ho letto veramente di tutto. L’ultima volta, forse è l’aneddoto a cui tu ti riferisci, quando sono stata alla Wine Blog Conference dove qui ogni anno, tutti i blogger che scrivono di vino si riuniscono una volta all’anno per fare questa conferenza, e di solito si va in una regione vinicola – perché poi la si visita e si fanno articoli da lì, eccetera – ed eravamo a Lodai, che sarebbe Lodi. È proprio scritto “Lodi” e tra l’altro è gemellato con Lodi, la città italiana lombarda. Quindi niente, eravamo a Lodai, e tra i vari produttori che ci hanno fatto assaggiare vino, arriva questo produttore di Lodai, California, che produce il Teroldego. Figurati, già mi mettono sul tavolo questa bottiglia di Teroldego, io sgrano gli occhi, e non c’è nessuno al tavolo dei blogger che avesse una vaga idea di cosa fosse il Teroldego, cioè questo vitigno, esiste o non esiste… e non stiamo parlando di gente che, non so, ho incontrato al supermercato o durante una battuta di caccia: nel senso, è gente che comunque scrive di vino, si occupa di vino, e il vino è il suo lavoro. E non sapevano cos’era il Teroldego. Questa è per dirne una. Un’altra, assaggiando del Gavi di Gavi e facendo una review del Gavi di Gavi sul suo blog, che mi scrive “Barolo bianco”, “Sto dell’ottimo Barolo bianco!”, della serie: ok, adesso mi vengono le bolle e mi viene una malattia e muoio! Va beh. Quindi, succedono queste cose, per dirti, come dicevi tu, che comunque bisogna anche investire sull’informazione corretta, sull’educazione e i consorzi. Dobbiamo fare qualcosa per spiegare al grande pubblico, ma anche ai giornalisti e ai blogger, le nostre regioni vinicole, perché queste cose non possono succedere.
Stefano: Ok allora Laura, grazie mille. Trovate i link e le informazioni alle presenze di Laura – che peraltro è Laura Wines in rete, rintracciabilissima – quindi grazie ancora, alla prossima!

Wednesday Aug 17, 2016

Prima di mettersi a raccontare il vino italiano all'estero per venderlo bisogna fare una cosa fondamentale.
L'articolo La prima cosa da fare negli Usa, in Cina o in qualsiasi altro posto per il tuo vino – con Dario Pennino sembra essere il primo su WineInternetMarketing.it.
Marketing del vino italiano all'estero. In questa puntata Dario Pennino ci parla di come raccontare e vendere i vini italiani nel mondo. Pennino, che è stato amministratore delegato delle vendite di Mastroberardino ed oggi è libero professionista, si concentra sulle condizioni culturali e di contesto nei mercati internazionali che spesso vengono ignorate ma che diventano decisive in regime di grande concorrenza e di livellamento qualitativo dei prodotti quale quello odierno.
Noi italiani siamo bravissimi a raccontare le nostre belle storie e ad autogratificarci. Ma poi scopriamo che bravi e belli sono anche gli altri. E allora conta quello che riusciamo a comunicare. Conta intanto conoscere bene chi hai davanti, capire la persona e la cultura di quel Paese.
Dario PenninoMastroberardinoLe 4 P funzionano nel vino?Il vino a Los AngelesRaccontare il vino in CinaLa prima cosa da fareRiposizionare un vino: I Vignaioli del Morellino di ScansanoIl vino biologico e Ladogana di Orta NovaI precursori del vino
Note alla puntata:
Puoi ascoltare l'intervista audio, cliccando in alto in questo articolo. Qui sotto c'è la completa trascrizione.
Stefano: Ciao Dario! Come stai?Dario: Ciao Stefano, sì, molto bene. Tu?Stefano: Molto bene, grazie.Dario: Vacanze?Stefano: No, non ancora. E tu?Dario: No, neanche per sogno!Stefano: Ma dove sei adesso? A casa?Dario: Sì sì, adesso sono a casa.Stefano: E quindi dove? A?Dario: Napoli.Stefano: Beh, ho visto anche sulla tua pagina Facebook che hai una foto con Hamsik. Hamsik ha firmato, cinque anni, siamo tranquilli.Dario: Tocchiamo subito un tasto molto sensibile, nel senso buono, perché io sono un grande supporter del Napoli e abbiamo vissuto questa vicenda Higuain, che in parte ha tenuto banco…Stefano: Che vi ha appassionato e continua ad appassionarvi.Dario: Voglio dire, ormai è routine. Hamsik, grande bandiera della Slovacchia, che ha creduto nel progetto sin dall’inizio, un’ottima persona, almeno negli occasionali incontri avuti con lui, un giovane ben motivato.Stefano: Quindi adesso siamo tranquilli, possiamo parlare di vino, di marketing del vino, via! Allora, abbiamo scherzato, ma mi fa molto piacere, oggi, parlare con Dario Pennino, perché Dario è un campano DOC non solo perché ama Napoli come molti altri, ma perché ha una bella storia da raccontare, una storia di ambasciatore del vino campano – e non soltanto del vino campano, adesso ci racconterà anche le sue più recenti esperienze – però partirei dalla tua storia nel vino, perché tu sei stato per più di 12 anni amministratore delegato delle vendite di Mastroberardino, che credo sia stato un po’ il tuo ingresso, un ingresso in grande stile nel mondo del vino… vuoi raccontarci questa cosa? Quali sono stati i tuoi studi e come sei entrato nel vino.Dario: Ma guarda Stefano, devo dirti che l’ingresso nel vino è stato davvero, per me, un’occasione in cui neanche credevo, mi riferisco sia all’ingresso in un settore che non conoscevo, devo essere sincero, sia all’ingresso in una grande azienda, in una grande famiglia come quella di Mastroberardino, dove, come tu hai appena accennato, ho avuto una lunga storia, anche con incarichi diversi, nel senso che il mio incarico maggiore è stato quello di cui tu accennavi prima, di amministratore delegato. Ma prima ancora io ho iniziato come export manager, quindi il mio start nel mondo del vino è stato quello classico, se vogliamo, di una figura giovane o junior che dir si voglia, di export manager: all’epoca, quindi parliamo nel 2003… epoca potremmo dire “sembra ieri”, e in effetti è molto molto altro ieri, per quanto il mondo, ma non solo quello del vino, sia cambiato. Erano scenari diversi, in cui all’epoca le cantine come appunto Mastroberardino avevano dei progetti di sviluppo, soprattutto di presenza e di distribuzione sui mercati internazionali, quindi questo fu il mio primo compito. E provenivo da esperienze diverse dal punto di vista professionale, nel senso che nel mio dopo-laurea – io sono laureato in Economia e Commercio, con una grandissima passione sin dai miei 19-20 anni per il marketing… il marketing, soprattutto il commercio internazionale, mi ha sempre appassionato – ho cercato anche esperienze di vario tipo, esperienze che mi hanno portato prima a piccole, varie esperienze, poi c’è stato l’approdo al Denaro. Il Denaro è un giornale economico-finanziario in Campania, dove io nel 1999 proposi al direttore di aprire e progettare un sito web per il giornale: per noi oggi sembra normalissimo parlare di un sito web, di un giornale, di un editore, ma nel ’99 era un’innovazione.Stefano: Nel ’99 era una grossa innovazione. E quindi ti porti, insomma, questa passione per il marketing, già anche un po’ per la rete… così, arrivi a Mastroberardino, il tuo compito è portare i vini nel mondo, farli conoscere?Dario: Sì, nel mondo, perché la mia personalità è legata all’esplorazione, alla voglia di capire, di conoscere, di riformulare magari, se possibile, delle formule esistenti in un mondo così dinamico, che cambia da un momento all’altro. Quindi io mi ritengo, da un punto di vista caratteriale, un curioso, un esploratore, per cui per me viaggiare e girare il mondo ha rappresentato senza dubbio una grande occasione professionale o umana.Stefano: E questo mondo l’hai girato poi davvero e tanto con il vino… raccontami qualcosa di questa esperienza.Dario: Ma guarda, il mondo del vino si identifica con tutto il mondo, nel senso che tutti bevono il vino, se poi vogliamo escludere aree culturali e geografiche particolarissime dove appunto alcune religioni non consentono l’uso dell’alcool o il bere vino, ma al di là di questa parte del mondo, tutti bevono il vino, e il vino si associa con la ristorazione, quindi si associa con il viaggiare, quindi lo scoprire, gli alberghi: è un mondo molto vasto, diciamo.Stefano: E tu dove sei stato? Un po’ ovunque.Dario: Dappertutto! Dappertutto vuol dire che avevo una piccola scheda su foglio Excel – poi non l’ho neanche più aggiornato – in cui a un certo punto contavo 54-55 paesi… tanti paesi. Poi alcuni, chiaramente, anche in maniera multipla: Stati Uniti, Giappone… paesi consolidati nel vino, Inghilterra, ho visitato poi tantissime volte gli Stati Uniti, che per me è stato un mercato in cui ho appunto applicato dei progetti a più riprese con più importatori, quindi insomma, c’è sempre stato tanto, tanto da fare.Stefano: Ma senti, sono curioso: un ragazzo giovane, che quindi ha cominciato presto la tua esperienza, che arrivava da Economia e Commercio, mi sembra… tu arrivi lì con la passione per il marketing, magari le quattro P – prodotto, prezzo, posizionamento, promozione – che tipo di impatto c’è stato invece nel settore? Sei riuscito ad applicare le cose che avevi studiato? Insomma, com’è andata?Dario: Bella domanda. Direi questo, Stefano: credo, anche se molto dipende all’interno del nostro paese tra sud, nord, quindi i giovani – in questo momento mi sto riferendo alla loro cultura – è cambiato tantissimo rispetto alla mia generazione, perché credo che nella mia generazione si era molto più curiosi di tutto, si era più affamati, si aveva più fame di scoprire, di fare, di costruire, e oggi credo che ci sia un taglio culturale molto diverso. Io generalizzo, ovviamente, eh.Stefano: Dici “mia generazione”, cosa vuoi dire tu? Quanti anni hai?Dario: Eh, io ho 48 anni, sono nato nel ’68, per cui è una generazione diversa rispetto, oggi, a un neolaureato che ne dovrebbe contare 25-26, per intenderci. Oggi – ma non vorrei, ci mancherebbe, andare nel sociale o nel culturale – un giovane si laurea e pensa di avere dei parametri di riferimento che, banalizzo, sono Facebook, WhatsApp, il messaggino, la fidanzatina, mamma o papà: e questo per lui rappresenta il suo mondo, il suo universo, che lo protegge, fondamentalmente. All’epoca tutto questo non c’era, nel senso che i nostri stessi genitori ci invitavano a fare qualcosa, ad andare fuori, a scoprire. Io ricordo mio padre, che sempre mi diceva “Tu devi viaggiare il mondo”, sì papà, io lo farò! Oggi un genitore dice “No, tu devi stare con me perché viaggiare il mondo è rischioso, ci sono le guerre e ci sono gli attentati”. Cambiano assolutamente i riferimenti, anche se sto un attimino banalizzando.Stefano: Sì, sì, ho capito. Quindi intanto c’è questo atteggiamento di esplorazione che ti ha aiutato.Dario: Assolutamente sì.Stefano: E che quindi è un requisito. Senti, però un’altra questione è… appunto, tu sei stato in tanti paesi, oggi la questione di posizionare un vino in paesi nuovi è un tema per tanti: un’epoca in cui calano i consumi interni, anche la concorrenza si fa più agguerrita in alcuni mercati tradizionali, o magari calano anche i consumi in alcuni mercati tradizionali, e si cercano insomma nuovi mercati e nuove vie. Però, andare in Cina è cosa diversa da andare nei paesi scandinavi o in altri luoghi. Vuoi parlarmi un po’ di questo?Dario: Ma guarda, è una domanda molto interessante perché si collega con una domanda che tu hai fatto prima a cui penso di non aver risposto, quando tu mi hai detto “Ma cosa ti sei portato dietro…”Stefano: Sì, rispondi adesso.Dario: Io direi questo: rispetto ai miei studi, e questa è la domanda a cui forse non ho risposto, gli studi sono fondamentali nella vita di una persona. Sono fondamentali perché ci danno la cultura di base, ci danno una sensibilità, ci danno degli spunti che noi possiamo cogliere, e ora parliamo di studi economici, commerciali… diversamente per un medico, ovviamente, dei suoi studi di medicina, gli danno quell’input. Nel nostro caso – studi commerciali di marketing – dobbiamo considerarli se vogliamo, ed è un consiglio ai giovani, una base, un presupposto necessario ma non affatto sufficiente per poter immettersi nel mondo del lavoro o, anche meglio, per fare bene nel mondo del lavoro. Cosa ci vuole oggi, per fare bene nel mondo del lavoro? Oggi, io credo che rispetto al marketing dei 10 o dei 15 anni fa, il marketing che abbiamo studiato a scuola, che secondo me ancora funziona nei suoi elementi basilari, oggi, in un mondo così variegato, in un sistema multiculturale: se noi parliamo di mondo, parliamo di vino, che è effettivamente distribuito in così tanti paesi, la base, il punto cruciale direi è che è un sistema di relazioni che tu vai a creare nei paesi, e nei mercati, di conseguenza. Con gli attori, ovviamente, che partecipano al mercato, che sono poi i tuoi attori con quali tu entri appunto in relazione. Perché mi sentirei di stressare questo punto? Perché, nel mio excursus professionale, posso dire che fino a, ti direi incredibilmente fino a 7-8 anni fa, però diciamo che fino a 10-15 anni fa delle strategie o dei meccanismi di funzionamento erano abbastanza standardizzati: potevano valere, non dico sempre ma in moltissime occasioni. Adesso no. Adesso ogni sistema, ogni area, microarea, microsistema, microcommunity ha bisogno di una sua interpretazione. Per cui l’uomo cosa fa? Il manager, il senior piuttosto che il junior? Lui capisce, lui cerca di capire. Cerca di interpretare e fermo restando i valori personali, dell’azienda, del posizionamento dei suoi prodotti, lui cerca… chiamiamola un’intesa, che poi nel commercio vuole essere una negoziazione, che poi nel commercio vuole essere “ok, sediamoci ad un tavolo e troviamo un sistema di marketing che funzioni per tutti”, però c’è bisogno di capire le persone, perché le persone provengono da esperienze diverse, e persone e paesi e mercati differenti provengono da vissuti così talmente variegati che tu necessariamente hai bisogno di darne un’interpretazione. Interpretazione che non vuol dire che tu perdi il tuo valore di base o la tua capacità di negoziare, ma quantomeno oggi ascoltare, dare quell’ascolto per il tuo interlocutore è fondamentale, perché lui deve anche capire se tu sei affidabile nel tempo, e se lui può dedicare tempo e denaro per te e con te. E tu sei aperto nei suoi confronti a supportarlo concretamente, nel suo sistema culturale o nel suo sistema di mercato. Sono riuscito un po’ a trasmettere il valore, il senso…Stefano: Certo. Questo mi sembra molto interessante, forse proprio perché questo aspetto sta diventando più critico, come ci dici tu, e sta diventando anche critica, sempre di più, la questione dell’educazione al vino, ai valori: nel senso che mi sembra che sempre di più, prima della vendita, ci sia la necessità di far comprendere le differenze del prodotto, le specificità in un panorama sempre più complesso in cui anche le differenze qualitative si assottigliano e la competizione aumenta. Credo che sia stato anche parte del lavoro che hai fatto, ti sembra questo dell’educazione un tema cruciale?Dario: Eh beh sì, lo è perché bisogna trasmettere non solo… guarda Stefano, ti dico la verità: io non ho mai fatto dei corsi di sommelier, perché il corso – ma nulla togliere alla professionalità dei sommelier stessi – tutto ciò che è un corso tende un po' a catalogarti, o comunque a darti dei parametri di riferimento. Ma quelli sono sempre la base, poi sei tu appunto, con la tua sensibilità e la tua cultura a carpire delle differenze o a fare la differenza. Allora girare, viaggiare, ascoltare, parlare, confrontarsi in maniera ripetuta, perché se tu vai in un posto, qualsiasi città del mondo, e fai un seminario di educazione al tuo vino, in quel caso cosa succede? Hai un’attenzione massima di trenta minuti da parte di quella forza-vendita di… ad esempio, Los Angeles, se vogliamo parlare di uno delle migliaia di seminari che possiamo fare in migliaia di città del mondo: trenta minuti sono occhi, orecchie e cuore per te, poi tu te ne vai, dopo mezz’ora ne passa un altro, e loro fanno lo stesso con altri. Poi scopri – ho citato un nome, a questo punto, che era Los Angeles – che Los Angeles ha 17 milioni di abitanti, è una città vastissima e dove la cultura del vino è comunque piccola perché dominano gli spirits… cos’è l’educazione al vino? Due cose, secondo me: uno, devi trasmettere, di base, i valori del tuo vino, della tua cantina e del tuo territorio, perché tu devi far capire loro dove sei, perché lo fai, e perché lo fai lì e non lo fai altrove, perché il tuo vino non è indifferenziato. Nella massa numerosissima di ottimi vini che esistono in Italia, in Europa, nel mondo eccetera, e soprattutto – e qui, un messaggio un po’ più rivolto al nuovo marketing – ti servono quelle parole-chiavi, ti servono quei concetti assolutamente chiavi, che tu devi dare loro e loro devono almeno ricordare dei 12 concetti chiave 3-2 quando tu sei andato via: questo è educazione, nel suo significato più completo. Quindi sì, vai là, racconti la storia, la famiglia, il vino… poi noi italiani siamo bravissimi a raccontare le nostre storie perché ci auto-gratifichiamo, quanto siamo bravi e siamo belli, e poi scopriamo che bravi e belli sono anche gli altri, e allora non puoi tu andare a dire “Io sono più bravo e bello degli altri”, perché se in Italia questo approccio può funzionare perché nella nostra cultura noi lo diciamo, ahimè… io dico: “Ah, ma lui non è buono, io sono più buono dell’altro, io sono più bravo dell’altro, tu non sei nessuno, io sono…”. Ma nelle altre culture, per esempio quella americana, è proibito assolutamente fare nomi di altri, parlare male di altri. Quindi – cerco di chiudere un po’ i cerchi di cui sopra – ecco perché è importante interpretare e capire la cultura di quel paese, perché tu devi capire come devi tu funzionare in quel paese, e non come funziona il paese e basta, o come funzioni tu e basta. Ma come tu puoi funzionare nel paese…?Stefano: Bella questione.Dario: È una bella sfida!Stefano: Senti, hai citato la questione del territorio, perché adesso sempre più si dice che uno dei valori materiali che è stato reso dalle bottiglie e che le differenziano è anche il territorio, oltre alla storia o un brand che possono essere grandi come nel caso di Mastroberardino oppure no, però dietro c’è sempre questo valore… ma che poi il rischio sia o di fare tutti la stessa cosa oppure di fermarsi a una dichiarazione di principio: ti sembra un tema, questo?Dario: Sì, molto interessante, molto sensibile, perché poi ho visto negli anni che le storie che si raccontano sono sempre molto belle, ma qualche volta un po’ statiche perché, ripeto, non si confrontano con i meccanismi mentali e culturali di quel posto. Quindi bisogna, secondo me, su questo punto, riflettere tanto: cercare di capire come cambiare un po’ le storie, perché la storia della cantina è bella, è sempre bella, però il mondo è troppo veloce, l’attenzione dura venti minuti, la focalizzazione purtroppo talvolta manca, e allora bisogna fare cose diverse in mercati diversi. Tu prima citavi, tra le varie cose, la Cina, credo che tu facessi questo: io mi sognerei di andare in Cina e fare la stessa presentazione che faccio a New York… non posso farlo, perché non lo capiscono. Questo non vuol dire che io mi adeguo a un sistema che non è mio, se cerco di fare le cose come a loro piace, ma è l’unico modo per poter esprimere la mia professionalità cioè, cercare dei punti comuni, parlare un po’ la loro lingua. Guarda che la Cina, il cinese, delle storie, della geografia, non ne vuole sapere niente: non gli interessa, perché loro hanno saltato a piè pari tutta la storia del mondo e tutta la storia dell’Europa fino a venti anni fa, quindi è giusto. Per cui, loro non sono pronti a sentir raccontare. Loro vogliono sapere… sai cosa mi chiedono, Stefano? “Ce l’hai l’app, che mi scarico i documenti? Sei su WeChat, che mi mandi la foto?”. “Io non ce l’ho quest’app”, “E come faccio a scaricare le schede di ogni vino?”, “Te le mando per e-mail”. E-mail, questo sconosciuto in Cina! Tutto per app, tutto per WeChat.Stefano: Quindi anche la rete ha cambiato tanto, ha un peso grosso negli stili di vita, nella cultura, e quindi in chi abbiamo davanti.Dario: Ma guarda, la rete oggi ancora di più, parlerei di tecnologia in senso largo ma addirittura di smartphone. Gli smartphone, in senso stretto, sono proprio loro che dominano la vita quotidiana di molti popoli: nel mondo asiatico, guarda che lo smartphone la fa da padrona, e se tu non ti confronti con quel sistema, c’è poco da fare o comunque devi cercare un punto, una via di mezzo.Stefano: Cioè, spesso tra te e il tuo interlocutore c’è di mezzo uno smartphone, in qualche modo…Dario: Con quei popoli sì. Io ti dico una cosa, che forse non ti ho ancora detto: nelle mie esperienze professionali, attuali intendo, io distribuisco con una mia società l’acqua Lete in Cina, quindi parliamo di acqua in questo caso, quindi in qualche modo non vado a deviare, ma per dirti che quando proponiamo i nostri prodotti in Cina, loro vogliono dei documenti che sono scaricabili via app, leggibili sullo smartphone, trasmissibili in un certo punto, in un certo modo, in un certo orario… cioè, cambia tutto. E noi produttori italiani che proveniamo da un’esperienza che è molto legata a “il mio prodotto, la mia azienda, la mia fabbrica, il mio territorio”, parliamo una lingua diversa, e si rischia spesso un allontanamento. Non dico una frizione: qui, cosa bisogna fare quando i cinesi non bevono vino, quando i cinesi non bevono acqua? I cinesi non bevono acqua! Cosa si fa in Cina se il cinese non beve acqua e il vetro è uno sconosciutissimo prodotto? Bisogna cercare di capire, di andare incontro alle loro richieste e alle loro esigenze, sempre.Stefano: Allora tu sei stato… appunto, con questa grossa esperienza con Mastroberardino, ma oggi sei consulente, stai vedendo anche realtà molto diverse. Poi magari ne accenniamo almeno un paio, perché mi sembrano molto interessanti. Ti chiederei però, ecco, siamo passati… un conto è andare nel mondo e magari raccontare un vino che ha comunque una storia, una faccia, e che faccia, e che brand. Adesso invece, magari, stai incontrando… o comunque, il nostro sistema italiano è fatto poi anche di tante medie e piccole cantine, che magari non hanno già questo tipo di valore che si possono portare dietro quando vanno a raccontarsi: da dove si parte? Qual è il primo passo che si fa? Perché c’è anche il rischio di sbagliare strada, investire dovunque quindi sprecare le risorse, non fare la scelta giusta…Dario: Guarda, posso essere secco su questa domanda, a beneficio dei nostri export manager o uomini marketing che ci ascoltano, che ci leggono: la primissima cosa che un uomo, un essere umano, una donna, in Scandinavia o in Cina o in America… il primissimo contatto che ha è con l’uomo, è con la persona. Lui cosa valuta automaticamente, prima ancora del prodotto? Tu che persona sei? Quindi tu devi trasmettere al meglio, e in forma molto sintetica – perché non c’è tempo per fare tutto e subito – un senso di professionalità, di serietà, di coerenza, di credibilità. Cioè, la tua persona che sta dall’altra parte, spesso di uno Skype, spesso di uno smartphone, spesso di un computer o di un’e-mail, deve capire se può fondare anche solo trenta minuti della sua esistenza su quello che tu gli stai proponendo, su quello che tu gli vuoi andare a vendere: questa è la scintilla, lo spark, si dice in inglese. Dopodichè, tu entri col prodotto e lui già entra… diciamo che già siamo in uno step successivo in cui quell’importatore o quel distributore avrà il portafoglio zeppo, sarà pieno di vino, sarà da vent’anni che distribuisce vino, e tutto sommato non gli cambi la vita se tu gli stai proponendo il tuo vino, la tua cantina, quindi è con quella scintilla iniziale che lui capisce che con te può fare qualcosa, che con te può realizzare un progetto valido, efficace, efficiente e, se mi consenti, che ci siano dei guadagni per lui. E guarda che non è banale!Stefano: Non è così scontato.Dario: Guarda Stefano, non è banale, e sai perché ti dico questo? In tutti i settori merceologici, questo lo sappiamo, i margini di profitto si sono assottigliati tantissimo da parte di tutti, e se tu non gli garantisci quel margine che secondo lui funziona per la sua organizzazione, per la sua storia, per le sue vicissitudini professionali piuttosto che personali, ha bisogno di quello… se tu non gli garantisci quel margine, guarda che fai molta fatica.Stefano: E certo. E fai anche fatica tu, nel senso che poi questo è un tema che appunto… perché non tutti hanno il Taurasi di Mastroberardino, oppure i Baroli o i Brunelli, anzi. Quindi a questo punto mi sembra interessante se tu mi racconti qualcosa della tua più recente esperienza con i vignaioli del Morellino di Scansano. Lì è una bella sfida col Morellino, mi sembra sia tema per chi deve posizionarsi, magari anche di nuovo riposizionarsi.Dario: Infatti sì. Infatti penso che il termine sia giusto da parte tua: un riposizionamento, perché tu sai che il Morellino di Scansano è stato molto, molto in voga credo 15 anni fa. Ha avuto dei momenti di grande moda, lo è stato in Italia, lo è stato anche nel mondo, negli Stati Uniti. Poi, per qualche ragione che non abbiamo qui tempo per analizzare, non lo è più. Ecco, allora, ci sono delle aziende, delle ottime aziende… io ho avuto la fortuna di incrociare i vignaioli del Morellino: subito è stato, devo dire, un bellissimo rapporto…Stefano: Sono una cooperativa, giusto? Sono tante...Dario: È una cooperativa, certo, di azienda. Perché loro, appunto, sono una cooperativa di 152 soci conferitori, perché tu devi immaginare che 152 famiglie che coltivano un ettaro o due ettari di vino a tre ettari come se fosse casa loro, ovviamente. Poi danno il meglio e il massimo in ogni fase dell’anno per produrre le migliori uve, e che poi conferiscono appunto alla cantina. È una sfida importante, perché la cantina nel suo assieme vanta oggi ormai 500 ettari vitati tutti in Maremma, quindi anche qui ritorna il discorso del posizionamento: tu dove sei, cosa fai, perché lo fai lì, perché sei lì, e quindi cercare di dare un messaggio preciso, specifico ai tuoi interlocutori, e questo mi ha appassionato degli vignaioli. Oltre che dei vini molto buoni, molto interessanti secondo me, e che godono di un rapporto prezzo-qualità molto, molto interessante. E oggi, per quello che ci siamo detti prima, questo vale, il rapporto prezzo-qualità: il price-point, no? Qualche volta lo diciamo noi, nel mondo del vino, ci parlano di questo price-point. Poi, insomma, a un certo punto c’è una confusione tra price-point e price: se tu mi dai due minuti vorrei dire questa cosa…Stefano: Sì, volentieri!Dario: È molto importante, perché il prezzo e il price-point – che poi in italiano credo che non esista neanche una sua congrua traduzione, perché sarebbe il “punto di prezzo” – sono due concetti molto diversi: il prezzo è il prezzo che io faccio, dalla mia azienda vitivinicola, perché ho valutato i costi, ho valutato l’impegno, ho valutato i margini… “Questo è il prezzo, lo vuoi? Ti piace? Ok”. Il price-point è quella categoria di prezzo predefinita sui mercati di cui sopra in cui il mio vino, il mio prodotto e quindi il mio prezzo incrocia o non incrocia il price-point. Quindi io rischio anche di divagare: anche se ho il vino più buono, il vino più bello, il vino più interessante, ma se non ho il price-point io non intercetto la categoria di quel mercato, e quindi bisogna lì, o da parte degli uomini di marketing o delle aziende fare degli sforzi, in questo caso molto commerciali, di interpretazione, e cercare di capire su quali mercati puntare, su quei mercati in cui il tuo price e il loro price-point siano il più vicino possibile.Stefano: Ecco, quindi questo sta diventando un tema… la giusta collocazione.Dario: Questo è un tema vivace, un tema vivido che è delicatissimo, perché si propongono milioni di vini, di buonissima fattura spesso, ma che se tu non comprendi qual è quella categoria di appartenenza di quel price-point…Stefano: Dove ti puoi posizionare, insomma, nella fascia di prezzo.Dario: Dove ti puoi posizionare in quella fascia di prezzo – parliamo di prezzi, in questo caso – diventa molto complicato riuscire a sviluppare non solo delle vendite, ma dei volumi di vendita e successivamente delle rotazioni, perché la mia vendita… se io sono un uomo di marketing, io non ho concluso il mio lavoro se io ti vendo un bancale, un container di vino perché sono bravo, ti convinco, “Ah ma che bravo, hai parlato di affidabilità, sei affidabile, sei credibile, ci credo”. Tu mi compri il bancale, poi lo distribuisci, lo metti sugli scaffali o sulle carte dei vini, e quanto tempo ruota quel bancale?Stefano: Certo. Sì, insomma, le sfide sono tante, qui andremmo lontano.Dario: La sfida della rotazione, la sfida del sell-out. E anche lì c’è un’altra categoria: la categoria di quel prodotto, di quel territorio su quella carta, che cambia da Berlino a Brema – che è al nord della Germania – o a Monaco di Baviera, che ha delle influenze di sud Europa.Stefano: Quindi anche chi è più bravo a supportare i clienti in questa fase dopo la vendita fa la differenza.Dario: Molto.Stefano: Senti, ti farei parlare della tua altra cosa, perché tu sei stato in Maremma con questa sfida sul Morellino, e poi La Dogana in Puglia… e questo mi interessa, perché è un’azienda tutta biologica, e adesso il biologico è un altro di quei temi di cui qui si sta parlando tanto, anche all’estero, sappiamo soprattutto in certi mercati: tu come la vedi?Dario: Ma guarda, La Dogana è un’esperienza, è un progetto iniziato da pochissimo, molto interessante, sono molto curioso, perché? Perché è un’azienda di famiglia – La Dogana è un cognome – parliamo di Foggia, di Orta Nova, in provincia di Foggia, ed è un’azienda biologica, certificata biologica, dal 1996. Qui loro hanno una grande e lunga esperienza di biologico, e tutte le vigne sono coltivate a biologico. Ora, il biologico, tu sai che è un tema…Stefano: Un tema grosso, che però si porta dietro anche tante contraddizioni, perché poi l’accezione comune di biologico è anche molto discutibile: adesso sono tutti “biologici”, no?Dario: Sì, di fatto è così. E senza entrare in questo tema a sua volta molto ampio, io direi questo, che mi ha convinto nella filosofia de Ladogana, appunto, quando si parlava di biologico, e loro hanno detto: “Guarda che per noi il biologico – questo mi è piaciuto molto, è uno degli asset che ho sposato subito –non è una filosofia per produrre del vino. Per noi è un sistema di coltivazione: cioè, noi ci sentiamo familiari, confortevoli a produrre in quel modo, perché siamo fatti così, perché vogliamo esprimerci in quel modo” e quindi, come tu vedi, se è vero quello che loro dicono – ed è vero, perché è la loro azienda – io subito, da uomo di marketing, mi posiziono mentalmente e non andrò a vendere – se posso dire questa cosa un po’ intima, la nostra strategia, ma dà un senso – il vino come biologico, perché il biologico, in quel caso, per me sarà un plus, sarà un extra. Io andrò a vendere il vino, andrò a vendere il vino di Orta Nova, il vino della provincia di Foggia, posizionato in quel territorio che esprime quei caratteri peculiari, poi il biologico rappresenta un plus. E questo è un tipo di posizionamento che tu cerchi sul mercato. Poi io so che sul mercato ci sono delle nicchie – nicchie intendo di chi compra dei vini solo perché è biologico – quindi c’è l’enoteca di Edimburgo che compra solo prodotti biologici, quindi io so che devo andare lì, perché è biologico.Stefano: Senti Dario, io ti ringrazio molto, ti chiedo un’ultima cosa. Sei stato molto esauriente e potremmo continuare. Io ti farei buttare uno sguardo sul futuro, perché – e qui ritorniamo un po’ a capo anche perché mi viene in mente Mastroberardino, Antonio Mastroberardino, che è stato uno di quegli uomini in Italia, ne abbiamo avuto alcuni, che sono stati un po’ precursori del futuro, cioè hanno visto probabilmente quello che non avevano alcuni, questa scelta che poi è diventata… sui vitigni autoctoni, laddove però c’era un contesto, magari i problemi erano degli altri: la fillossera, la guerra, poi ci sono stati i viaggi… Però ecco, c’erano queste scelte strategiche, per esempio appunto sui vitigni autoctoni, qualcuno che decide Fiano, il Greco, l’Aglianico e poi gli altri: ecco, oggi chi sono i precursori del vino? Cosa stanno vedendo? Facciamo questa avventura, buttiamoci nel futuro.Dario: Ma guarda, domanda molto interessante, poi significativa nel suo genere, perché il visionario, e tu hai citato una grandissima persona che ho avuto la fortuna e l’onore di conoscere e lavorare, con Antonio, ognuno è bravo perché interpreta la sua era, e a noi oggi sembra facile: prendiamo l’aereo, facciamo la connessione su Monaco, Lufthansa e quant’altro, poi abbiamo conosciuto degli uomini che negli anni ’70, se non parliamo dei ’60, andavano nelle navi o magari gli alberghi non erano così confortevoli… qual è il futuro? Eh, bella domanda. Io credo questo, guarda, ti risponderei così: i mercati sono già ben segmentati. C’è spazio potenzialmente per tutti, però devi essere bravo a posizionare il tuo prodotto nelle modalità come ci siamo detti finora: devi capire dove andare, devi capire dove spendere il tuo tempo e il tuo denaro, perché non puoi andare dappertutto, non puoi girare in questi giri folli tutto il mondo e poi fare la stessa cosa, l’abbiamo detto prima. Il futuro è dato da uomini, donne, che interpretano quello specifico mercato, quello specifico segmento di mercato, quello specifico price-point, ed essere bravo ad intercettare questi momenti, ecco. Quindi è una maggior vita di analisi, analisi che poi manco si fa al computer o sui libri, sempre si fa viaggiando e parlando con le persone. Quindi attivare un sistema di relazioni più intenso, viaggiare ad occhi aperti e orecchie spalancate, cercare di capire gli altri cosa vogliono fare, e quindi trovare dei punti comuni, delle connessioni, ecco, chiamiamole connessioni. Uno slogan che a me piace molto, ma è uno slogan di vita ormai, al di là del mondo vitivinicolo, io dico che le persone sono connesse da energia: se tu non riesci ad alimentare in quella persona un’energia – ma può essere vino, ma può essere abbigliamento, ma può essere qualsiasi cosa che tu voglia a loro vendere – se tu non attivi una connessione, non puoi vendere nulla.Stefano: Grazie Dario.Dario: Grazie Stefano! A presto!

Tuesday Jul 12, 2016

Gli errori della comunicazione enogastronomica e il potere della parola.
L'articolo Come far scappare le persone davanti a un vino – con Tinto di Decanter Radio2 sembra essere il primo su WineInternetMarketing.it.
Chiamiamolo storytelling del vino o come ci pare. Le parole arrivano quasi sempre prima di tutto: e possono far avvicinare o far scappare chi sta ascoltando. Ne parliamo con Nicola Prudente, in arte Tinto, quello di Decanter su Radiodue, conduttore e autore radiofonico e televisivo.
Per Tinto le parole hanno un potere unico ma a volte con l’enogastronomia e il vino si commette l’errore di essere autoreferenziali. Sì dà per scontato che chi è dall’altra parte abbia le tue stesse competenze. Ma non è così.
Tu potresti avere davanti più persone possibili ma poi queste persone scappano perché non riescono a comprenderti, quindi il problema sei tu che non sei capace di comunicare: allora lì devi fare uno sforzo.
Prendi Sgarbi: lo senti parlare di Michelangelo o di un altro grande interprete dell’arte italiana e ti innamori. Prendi invece il classico professore che non è brillante, non ha ritmo e magari te lo descrive in modo noioso. Ma come pretendi che chi sta davanti si appassioni? La stessa cosa vale per l’enogastronomia e il vino.
E’ una peculiarità tutta italiana questo modo di vivere la cultura. Pensa all’ambito accademico, al cattedratico, al “barone” che magari all’università non vedevi mai o alla cerimonia di apertura con gli ermellini e le toghe. È sempre tutto molto barocco da noi. E anche nel vino, purtroppo, a noi piace un po’ questo club per pochi, in cui più si parla difficile più le persone non capiscono.
 
Note alla puntata:
DecanterPremiolinoNicola “Tinto” PrudenteIl Gastronauta su Radio24Un pesce di nome TintoFrigoObbiettivo educazioneNon solo video, instagram, snapchat: meglio la radio e le parole che la tvLa leggerezza e l’educazioneLa bottega del vino a VeronaArmin KoblerTwitter e Belen RodriguezNon ci si può opporre al cambiamentoMa se ti portano un piatto al ristorante non perderti la spiegazione perché devi fare la fotoL’originalità della storiaL’educazione enogastronomica per la salute e per la dimensione socialeDecanter SommelierSommelier ma non troppo – corretto abbinamento tra cibo e vinoVinocultFederazione Italiana Sommelier Roma – BibendaLa prova del cuocoWine Internet Marketing Podcast anche su facebook
Puoi ascoltare l’intervista audio, cliccando in alto in questo articolo. Qui sotto c’è la completa trascrizione.
Tinto: Ciao Stefano!
Stefano: Ciao Tinto. È un grande piacere averti qui, a Wine Internet Marketing, perché ci occupiamo di comunicazione del vino: abbiamo parlato con direttori di testate, con giornalisti autorevoli in tv, ma come si fa a occuparsi di comunicazione del vino senza aver parlato con Nicola Prudente, in arte Tinto? Perché – lo sanno tutti, le persone che ci ascoltano – siete molto popolari, vi rivolgete a così tante persone, e quindi ecco, ti ringraziamo per la tua disponibilità.Tinto: No, anzi, io ringrazio voi, tutti quelli che ci stanno ascoltando e il piacere è tutto mio.Stefano: Bene, grazie. Senti, allora, come ti dicevo prima di questa intervista, io parto citando alcune cose della fonte Wikipedia, se sono sbagliate me lo dirai. Nel 2016 tu e Fede avete ricevuto anche un premio per la diffusione della cultura enogastronomica, il Premiolino, no? Un premio importante.Tinto: E non si sono sbagliati, perché quando ce l’hanno comunicato, che vincevamo il Premiolino, premiazione a Palazzo Marino, ho detto: vabbè, adesso vedrai che è un errore, una bufala. Poi normalmente noi siamo i primi a fare gli scherzi, questa volta lo scherzo ce l’hanno fatto. Invece per ora pare che sia tutto vero: siamo stati a Milano, l’abbiamo ritirato ma quando ho letto chi l’aveva ricevuto in passato, “Sì, ma Fede&Tinto che c’entrano” …un enorme piacere ci ha fatto.
Stefano: Certo, immagino. Tra l’altro – sempre Wikipedia – secondo una ricerca, la vostra popolarità è scontata, però qualcuno dice che addirittura siete davanti a Linea Verde e Masterchef su Sky. Insomma, al di là di questo, al di là poi delle classifiche che lasciano alle volte il tempo che trovano, ma quello che mi interessava: una bella soddisfazione immagino, ma anche una bella responsabilità rispetto a quello che si fa…
Tinto: Mah, allora. Vista adesso, è facile e semplice. Però, io lo dico a te Stefano, ma lo dico anche a chi ci sta ascoltando: la cosa andrebbe vista tredici anni fa. Tredici anni fa, ricordiamoci che la bolla enogastronomica ancora non era esplosa, d’altra parte noi adesso stiamo chiacchierando su un mezzo e stiamo chiacchierando di enogastronomia. Tantissimi anni fa questa cosa qua era impensabile, tantissimi anni fa i quotidiani non avevano la pagina dedicata all’enogastronomia. Slow Food non era così organizzato e così importante come oggi. Il Salone del Gusto, la prima edizione è stata nel 2006, quindi voglio dire, non c’erano così tanti programmi, così tanti talent. Sicuramente uno come Massimo Bottura, che da pochi giorni ha vinto come miglior chef del mondo, lo deve anche a questa grande bolla, questa panna che è montata negli anni, che vede l’enogastronomia italiana protagonista. D’altra parte c’è stato anche Expo che ha contribuito, e quindi sai, Decanter un conto è vederlo oggi, perché noi siamo stati i primi e siamo, ad oggi, gli unici in radio che parlano di enogastronomia quotidianamente. Non ci sono tante altre trasmissioni. Siamo anche molto amici di Davide Paolini, Il Gastronauta su Radio24, però noi siamo quotidiani: è stata una bella scommessa, però diciamo che la sfida possiamo dire che è vinta. Ci vuole un po’ di lungimiranza e un po’ di fortuna.
Stefano: Certo. E infatti trovo molto interessante questa cosa. Qua ci interessano spesso le storie personali, no? E quindi allora proviamo ad andare indietro, per capire la tua prospettiva: tu, allora, conduttore radiofonico, televisivo ovviamente, autore di programmi… come si è sviluppata questa cosa nel vino? Cioè, tu dici “È stata una scommessa” ma, per te, come sei arrivato a giocarti questa carta?
Tinto: Guarda, allora, il mio percorso di studi è stato legato comunque sempre al mondo della comunicazione, perché mi sono laureato in Scienze della Comunicazione a Milano. Poi ho fatto un master a Roma, però diciamo sempre in ambito di marketing e comunicazione. Ma io, uscito dall’università, facevo dell’altro: ho lavorato come Junior Accounting in una società di eventi, poi ho lavorato come responsabile nel settore operativo di un importante tour operator. Poi, proprio in quell’occasione, questo tour operator fece un accordo con Radio2 per trasmettere dai propri villaggi, e quindi quello è stato poi il gancio, il passe-partout che mi ha permesso di proporre una trasmissione – io e Fede poi abbiamo da sempre lavorato insieme – e quindi ci è andata bene. Ma ti assicuro che il fatto di poter parlare di enogastronomia è arrivato dopo, perché all’inizio quello che facevamo noi era una trasmissione turistica, dal titolo “Il Tropico del Cammello”, troppo forti della nostra esperienza in ambito turistico, e quello era l’argomento. Poi dopo, casualmente, è nata una trasmissione radiofonica il cui argomento era l’enogastronomia, ma ti assicuro che all’inizio…
Stefano: È stata una scelta editoriale a monte, una passione anche vostra?
Tinto: È stata una serie di fattori, una serie di combinazioni, perché ci avevano chiesto un’idea per l’inverno dopo aver fatto due stagioni di estate con questo programma su Radio2 che si chiamava “Tropico del Cammello”, ma il turismo non può reggere tutto l’anno: è un programma che aveva l’obiettivo proprio di promuovere le località di vacanza. Infatti noi andavamo di estate, andavamo solo nel periodo di Pasqua e poi andavamo nel periodo natalizio: eravamo un palinsesto in sostituto dei Conigli, per cui una fascia anche prestigiosa. Poi, l’allora direttore di Radio2 disse: “Perché non ci proponete un’idea per l’inverno?”. Noi all’inizio volevamo fare un talk-show politico, che poi con gli anni è arrivato – c’è infatti su Radio2 con Un giorno da pecora – però la nostra idea era quella di parlare di temi legati alla politica mettendo in contrapposizione l’uomo della strada al grande politico, per cui sdrammatizzare un poco la politica. Magari ad oggi, se ci fosse andata bene quella, oggi erano nelle condizioni di chiudere La Pecora, ma chi può dirlo. Alla fine ci è andata bene anche così.
Stefano: Avreste bevuto molto peggio, però. E mangiato molto peggio.
Tinto: Avremmo sicuramente mangiato molto peggio, e credo che il mondo enogastronomico sia molto più affascinante. Poi da lì sono arrivati anche altri programmi, quindi altre esperienze che magari con la politica, come tema portante, non sarebbero arrivate. E quindi abbiamo fatto negli anni “Linea Verde Orizzonti” su Rai 1, un programma dedicato al turismo però si parlava anche di enogastronomia, che era “Magica Italia”, sempre su Rai 1. Poi siamo passati a La7, dove abbiamo fatto un programma dal titolo “Fuori di Gusto”, una visione un po’ rock un po’ pop del mondo enogastronomico. Poi quest’anno “La Prova del Cuoco”, sempre su Rai 1. Poi io su Rai 2 ho fatto prima “Un Pesce di Nome Tinto”, un programma dedicato al consumo responsabile del mare, del pesce, tutta la filiera. E poi quest’anno “Frigo”, che poi riprenderà nel nuovo anno…
Stefano: Ah, questa è una buona notizia! Riprenderà.
Tinto: Sì, sì. Riprenderà. Proprio in questi giorni ci sono le prime riunioni produttive, ed è proprio il programma la cui mission è l’educazione alimentare. Quindi insomma, alla fine, poi, aver cavalcato questo tema ci ha portato lontano e ci porterà magari ancora più lontano, ecco.
Stefano: Siete stati bravi. Senti, prova a raccontarci: il discorso Decanter, e poi Decanter Sommelier. Quando avete cominciato questa cosa, qual è stato l’obiettivo che vi eravate dati nel fare Decanter Sommelier?
Tinto: Allora, il nostro è sempre un obiettivo di educazione. Come ti dicevo prima, con Frigo, è l’educazione alimentare giovanile. Con Decanter l’educazione alimentare è, diciamo, per tutti. Con “Sommelier ma non troppo” siamo partiti dalla radio facendo appunto un corso gratuito scaricabile in podcast per chi fosse appassionato, ma anche per chi magari ha solo la curiosità, magari parte dall’ascolto di un corso e si iscrive a un corso vero. Noi non lo diciamo che questo corso vuole sostituire gli altri. È chiaro che un conto è una cosa, sentirla alla radio, un conto è un qualcosa di rapido che fai con i docenti. Però, sai, la curiosità la puoi attivare anche con le parole. Da lì, il corso è andato così bene, era in classifica ai primi posti di iTunes per quanto riguarda il numero di podcast scaricati, e Rai Eri ci ha chiesto di fare un libro, e adesso siamo usciti col secondo libro: il primo è “Sommelier ma non troppo”, il secondo è “Sommelier ma non troppo: il corretto abbinamento fra cibo e vino”, quindi ci siamo concentrati soprattutto sull’abbinamento, sulle tecniche di abbinamento. Ma in modo pop, in modo rock, cioè come lo facciamo noi, dove comunque se capita la battuta, ci sta. Con quel tema leggero, non da grande gourmet. E quella è un po’ la nostra forza, specificità: noi non ci sostituiamo ai sommelier o ai cuochi o ai gourmet, noi stiamo in mezzo, facciamo parlare gli altri e cerchiamo di avvicinare il grande pubblico ai temi dell’enogastronomia.
Stefano: Ecco. Quindi è un posizionamento ben preciso che è appunto molto interessante. Allora, io ho attraversato un po’ tutte le cose che avete fatto. Quando preparavo l’esame da sommelier mi ascoltavo i vostri podcast correndo, soprattutto quelli dedicati al vino: quegli approfondimenti che avevate chiamato un po’ master, sulle varie zone, territori in Italia o anche all’estero. Poi ho comprato il libro che ovviamente, come dicevi tu, non ha la pretesa di sostituirsi a un manuale, ma appunto, per quel target, per quel tipo di persona che, dicevi tu, magari vuole approfondire un po’, capire qualcosa in più, è molto interessante e copre benissimo quella posizione che ci hai appena raccontato. Senti, con tutte queste persone con cui state quotidianamente in contatto, che cosa avete capito di queste persone? Chi sono, cosa fanno, cosa vogliono…? C’è questo aspetto di educazione che a voi preme molto, il trasmettere dei valori. Ma avete capito qualcosa, anche di più, insomma? Che cosa avete imparato in questi anni, da questo?
Tinto: Allora, diciamo, chi lavora nel mondo dell’enogastronomia a volte commette l’errore di essere troppo autoreferenziale, quindi dai per scontato che ci stia dall’altra parte abbia delle competenze, ma non è così. Come nel caso del vino: il sommelier che riesce a ritrovare nel bicchiere determinati sentori, retrogusti… a parte le informazioni tecniche di base, perché tu, cos’è il metodo classico lo devi sapere a priori, però poi quando fai l’analisi sensoriale c’è anche molto esercizio: anche gli stessi sommelier con cui abbiamo collaborato sia per il libro sia per il corso alla radio “Sommelier Ma Non Troppo”, magari vent’anni fa avevano meno esperienza, erano meno bravi. Con gli anni e con l’esperienza hanno affinato i loro cervelli, quindi le loro competenze: è un lavoro molto pratico, però io dico sempre che quando ci sono delle distrazioni e c’è il sommelier che tira fuori dei sentori particolari, io dico sempre: voi buttatevi, sentite quello che dice, e poi cercate di riprovarli anche voi. Perché se lui dice “glicine”, magari lui lo riconosce da prima, ma voi, provando a concentrarvi, il sentore cioè quel tipo di aroma dentro il file della memoria del glicine voi ce l’avete, perché siete già entrati in contatto con il glicine. Ma magari non è così immediato come per un sommelier. Ognuno nel proprio lavoro ha delle specificità. La differenza è che rispetto ad altri settori, tu non puoi non mangiare e non bere. Oddio, puoi essere astemio, però non mangiare è impossibile, quindi… che ne so, se uno è un medico, saprà tutto ovviamente sulla medicina, ma di altri campi ne sa un po’ meno, e può non occuparsene. Per dire: è medico, non gli piace il pallone, può non essere esperto in pallone, e può anche continuare a vivere senza esserlo. Mentre, di enogastronomia, ok, puoi essere astemio, non bere, ma comunque senza gastronomia è una vita triste. Quindi bene o male qualche nozione di base la devi avere, oltretutto hai anche dei risvolti sulla salute, che non vanno mai tralasciati.
Stefano: Certo. Quindi per voi parlare di gastronomia è stato il modo più semplice o forse diretto, per ripartire dall’esperienza comune delle persone e poi arrivare a parlare di vino ma appunto ingaggiandole sull’enogastronomia. E’ il vostro storytelling del vino?
Tinto: Sì, sì. Assolutamente. Poi cibo e vino vanno sempre a braccetto.
Stefano: Beh, del resto… sommelier si è per questo. Senti, guarda, ti farei insistere su questo punto che hai citato prima, sulla questione di questa che tu chiami “leggerezza”, la questione del linguaggio, del tono di voce, perché spesso ancora tu dicevi anche di fare educazione. Molto spesso sembra che sia impossibile fare educazione, e che educazione e leggerezza sembrano siano due cose che non stiano insieme, no? Anch’io sono un giornalista, ma penso che chiunque, in qualche modo, anche i produttori che devono raccontare il proprio vino, l’importanza di quello che fanno, la complessità di quello che fanno… molto spesso veniamo presi dall’importanza di quello che vogliamo dire, ci sembra tutto importante, aggiungiamo particolari, informazioni, schiacciamo al massimo tutto quello che dobbiamo dire in una conversazione, in una comunicazione o presentazione. Ma poi non necessariamente funziona così, che tanta roba, tanta profondità, tanta complessità ci faccia tenere attiva l’attenzione delle persone a cui ci vogliamo rivolgere. Qual è il segreto?
Tinto: Mah, dipende sempre da chi hai di fronte, però, ripeto, è un peccato, perché alla fine quando tu potresti avere davanti più persone possibili, poi queste persone scappano perché non riescono a comprenderti, quindi il problema magari è che sei tu non a non essere capace di comunicare, allora lì devi fare uno sforzo. Prendi per esempio Sgarbi: tu senti parlare Sgarbi di Michelangelo o un altro grande interprete dell’arte italiana, tu ti innamori di quel quadro o di quel dipinto perché Sgarbi ha una capacità comunicativa unica. Se tu invece magari prendi il classico professore universitario o non, un po’ agée, che non è brillante, non ha ritmo, e magari te lo descrive in modo noioso: ma come pretendi che questo che ti sta davanti ti appassioni a quel tema? E quindi la stessa cosa vale per l’enogastronomia. Ma è anche una peculiarità nostra italiana, cioè, d’altra parte pensa anche all’ambito accademico: cioè, io faccio l’università e c’era il professore, l’accademico, il cattedratico, il titolare, che magari non vedevi mai, non veniva, il “barone”. Anche solo la cerimonia di apertura degli anni accademici c’erano tutti i professori con l’ermellino, la toga. È sempre molto barocco, ma è un modo nostro di vivere forse i vari ambiti della cultura. Se tu già vai negli Stati Uniti, non è così.
Stefano: Un po’ più rilassato. Un po’ più easy.
Tinto: È rock, un po’ più easy, ma magari arriva lo stesso a comunicare, e lo fa anche meglio. Allora poi vedi, magari l’americano che viene qua a studiare storia dell’arte, e capisce che insomma c’è qualcosa che non va nella comunicazione. Diciamo che a noi piace un po’ questo club per pochi: più si parla difficile e più si è fighi, perché sai, tu non capisci, no?
Stefano: Quindi c’è un po’ di snobismo.
Tinto: Esatto. E questo non solo nel settore enogastronomico, in molti altri. Negli anni, grazie a Dio, sta cambiando. Ma io mi ricordo anche noi, quando eravamo all’inizio: i grandi gourmet, i grandi giornalisti enogastronomici ci guardavano quasi con disprezzo.
Stefano: Infatti mi interessava questo inizio.
Tinto: “Voi ma chi siete, non ne capite, non siete accreditati”. Anche tu hai detto: “Io sono un giornalista”, chiunque volendo, se rispetta delle determinate regole potrebbe essere ungiornalista. Qua ancora, rispetto ad altri paesi, abbiamo l’albo professionale… cioè, abbiamo ancora delle carte.
Stefano: Certo. No, ma poi su questa cosa del giornalismo… ormai gli americani dicono che il dibattito sul giornalismo e gli americani – soprattutto da quando c’è la rete che ha preso un posto così importante nelle news, nei media – non è tra chi è giornalista e chi non è giornalista, ma tra chi fa il giornalismo e chi non lo fa. Si tratta di capire lo status, ecco, è relativo.
Tinto: Per quello ti dico, insomma, il problema è un po’ nel modo.
Stefano: No dicevo, sono giornalista nel senso che tema, il tema di come arrivare alle persone è una cosa che sai, che dovrebbe ispirare quello che stai facendo, se no il rischio è di dire delle cose essendo referenziali.
Tinto: Assolutamente. È quello, e mi dispiace quando poi, appunto, col grande patrimonio artistico che c’è in Italia, i musei sono vuoti. Allora, chiediamoci perché: è forse possibile un cambio nella comunicazione? Come possiamo fare per attirare più giovani al grande patrimonio artistico italiano? Allora anche lì, è forse solo una questione di modo di comunicare. Però noi, che abbiamo questa grande risorsa, poi non la sfruttiamo. Magari da altri paesi che vengono apposta per studiare le nostre opere, ne sanno più di noi quando noi invece ce le abbiamo a casa. Io l’ho visto col mare, col mio programma su Rai 2 “Un Pesce di Nome Tinto”: l’Italia ha oltre il 90% del territorio bagnato dal mare, e noi dovremmo essere i più grandi consumatori di pesce, ma anche conoscitori di pesce d’Europa, e invece i consumi di pesce da noi non sono così in alto. Questo perché? Perché comunque il pesce viene percepito come qualcosa di caro, che si mangia solo il venerdì – c’è un detto che dice “venerdì pesce” – quindi quello fa parte un po’ del nostro modo di concepire questo. Oppure, hai delle grandi bottiglie. Dici “no, no, no, Barolo oppure Brunello, solo nelle grandi occasioni”, ma perché nelle grandi occasioni? Cioè, ogni giorno, se tu vuoi, potrebbe essere una grande occasione. Tanto dici così, poi la grande occasione non arriva mai e tu il vino non lo berrai mai. Quindi alla fine non ha senso. È un classico. Oppure io per esempio vedo delle formule a Verona, un posto meraviglioso – la Bottega del Vino – dove ti mettono in carta grandi vini italiani al bicchiere. Ma tu vai lì e ti bevi un calice di un vino che magari tu non ti potresti permettere ma lo provi. Se tu vai da altre parti, “Eh no, no” …ma no perché? Chi l’ha detto?
Stefano: Oltretutto oggi ci sono anche dei sistemi tecnologici che consentono che le bottiglie vengano aperte.
Tinto: Appunto. Però è un discorso di atteggiamento: prova a proporla ad un ristoratore, una roba del genere. Verrà sempre il gran personaggio, vip, che va da lui e magari non paga, e ordina la grande bottiglia, e quella bottiglia poi alla fine rimane a me.
Stefano: Certo, certo. Oltretutto c’è un discorso sul potere di spesa, nel senso che se si vuole democratizzare il consumo e avvicinare le persone, poi non è semplice per tutti comprare certi tipi di bottiglie così, per assaggiarle. Senti, Tinto, poi c’è il miracolo delle parole. Lo dicevi tu, adesso siamo uno dei grandi trend della comunicazione visuale: Instagram, Snapchat, i video… questa è una cosa consolidata verso cui c’è sempre un maggior interesse, anche nell’ambito del vino, di chi deve comunicare il vino. E però poi ci sono anche le parole, perché vengono fuori anche questi numeri… io sono appassionato di podcast, cerco di seguire quello che accade per esempio negli Stati Uniti, dove molto spesso alcune tendenze poi anticipano quelle che succedono da noi, e là, negli ultimi anni, sta crescendo molto anche il consumo di audio on-demand, di trasmissioni audio che, oltre che in diretta alla radio come nel nostro caso, si seguono poi on-demand, in mobilità, sul cellulare, in macchina, insomma in altri contesti. Rispetto a questo, voi, sulla parola, cosa avete capito? Come ingaggiate le persone senza potergli far vedere niente – perché non avete le immagini, non avete ovviamente il prodotto, non avete i profumi da far vedere – però c’è questo potere magnifico della parola…
Tinto: Guarda, io facendo sia radio che televisione ti dico che conosco entrambi. Poi vabbè, abbiamo anche dei libri però, voglio dire, non posso definirmi scrittore, mentre magari conduttore radiofonico e televisivo sì. Questo è bello. Cioè, il bello della radio è che radio, editoria e quindi lettura vanno a braccetto, perché entrambe rispettano chi hai dall’altra parte: quando io ti parlo delle Langhe o ti parlo del Montalcino, tu ti immagini in modo soggettivo quel posto, e quello che io ti sto raccontando nella tua mente, nella tua fantasia, nella mia e in un altro, in quella di mia moglie e in un altro, e via dicendo. Nella televisione, invece, fornendoti io l’immagine, tutto questo non c’è perché io ti faccio vedere una fotografia, e quella è. Tu non aggiungi nulla, cioè la subisci e basta, tant’è vero che mentre la radio può essere di sottofondo, la televisione no. Qualcuno, sì, poi la accende per un discorso sociale e di compagnia, però la televisione si guarda, non si ascolta, è difficile. Mentre, invece, per quanto riguarda la radio sì. Quindi in quello sono simili, radio e lettura di un testo, un libro, e da quel punto di vista lì quindi, è bello perché ti sviluppa la fantasia: è un po’ come quando tu racconti: io ho due bambini, tra l’altro nella mia crescita professionale l’arrivo dei due bimbi è stato fondamentale…
Stefano: Perché?
Tinto: Beh, anche sul tema dell’educazione alimentare, perché comunque c’è anche una sfida nei confronti delle nuove generazioni, una sorta di responsabilità che trovi, quindi fare un programma che lasci anche qualcosa e fare un programma che invece non ti lascia niente, ovviamente preferisco quello che mi lasci qualcosa, anche perché comunque puoi dare il buon esempio e magari poi qualcuno ascolta i tuoi consigli. Quindi, da quel punto di vista devo dire che quando io racconto una fiaba a mia figlia piccola, è un’altra cosa perché lei si immagina chissà quali fantasie, quali storie, e comunque sviluppa la mente. Se invece prendo un tablet e gli metto Peppa Pig e glielo faccio vedere, lei lo subisce passivamente, ma in che cosa contribuisce? In niente. Quindi sì, da quel punto di vista sono due mezzi completamente differenti. Per quanto riguarda i social e il mondo internet, secondo me la vera rivoluzione per quanto riguarda la radio nei prossimi anni sarà il digitale: cioè, il digitale significa che ci sarà una miglior qualità, perché se io metto su Radio2, Radio2 sarà non su 92.7 a Roma e su 95.3… a Milano e a Palermo… ma sarà Radio2, quindi sarà importante il brand. Così come in macchina sarà Radio2. Per quanto riguarda quindi l’aspetto tecnologico, il digitale per la radio sarà una grande rivoluzione. Per quanto riguarda i social, io vedo per esempio anche sul lato personale che fino all’anno scorso io non avevo vasta scelta per i social miei, personali, proprio per scelta, perché sono molto rispettoso della privacy. Invece poi ho capito che non puoi non averli, quindi attraverso il mio Instagram, attraverso il mio Twitter, attraverso il mio Facebook io posso comunque comunicare. Stesse cose che comunque comunico anche in radio e televisione, ma è un’arma in più. Sicuramente cambio utenti, perché la rete vive di immediatezza…
Stefano: Però senti, alcuni sono spaventati da questa cosa che dici, che non si può non esserci, un messaggio che molto spesso si dice anche a chi produce il vino, chi deve comunicarlo: si dice che deve per forza esserci, però poi questo esserci può anche un impegno, un lavoro e qualche volte non necessariamente ottiene magari i risultati per cui viene intrapreso… tu come ci stai lì sopra? Nel senso, l’altro giorno, l’ultima intervista che abbiamo fatto qua abbiamo parlato con Armin Kobler, un produttore che dice che i social lo aiutano sostanzialmente anche a rompere una sorta di retorica anche di falsità che talvolta passa sul lavoro dei produttori, e quindi lui dice “Io faccio vedere assolutamente tutto, cerco di essere trasparente, faccio addirittura vedere che faccio i trattamenti”, perché alcune volte si fanno i trattamenti, c’è anche un impiego, anche se c’è un trend molto forte su alcuni temi legati al bio. Ecco, quindi, si può anche essere semplici, andare tranquilli e non avere paura… tu come fai?
Tinto: Innanzitutto avere le idee chiare e capire cosa comunicare. Io, per esempio, non metto mai temi legati alla politica, o temi sensibili… ecco, non devi abusarne. Io vedo che a volte su Twitter che chiunque dice la sua su qualsiasi cosa: cioè, quello io lo trovo poco corretto e lo trovoveramente una perdita di tempo. Siccome il buon Dio ci ha dato la bocca, uno la deve aprire, ma a mio avviso… a meno che tu non sei uno che ha una posizione per cui è doveroso. Pensa ai fatti di cronaca, se tu sei tenuto, è normale che tu ti esprima. C’è un problema legato all’ambiente, è normale che magari il Ministro dell’Ambiente dica qualcosa, c’è una responsabilità. Ma quelli che magari esprimono un commento su Belen Rodriguez così, in modo gratuito… ecco, lì è perdita di tempo. Oppure, è come quelli che vanno in vacanza e fanno la loro foto, il selfie, davanti all’aereo: è un po’ triste da quel punto di vista. Magari fai una bella foto, un bello scatto e poi lo commenti di sotto. Non ti devi poi isolare, perché poi il rischio dei social è quello. Ma secondo me, per le aziende, può essere una grande opportunità, ed è drammatica la situazione: io ti parlo del vino, cioè per quanto riguarda il vino, prendi le cantine, hanno un sito internet vergognoso, non sono aggiornate le pagine, i social, se ci sono… i più virtuosi ci sono e lo curano e hanno proprio una persona che ci si dedica. Gli altri, alcuni non ci sono… veramente un asset che oramai tu non puoi non coltivare. Perché ce l’hanno tutti. D’altra parte non ci si può opporre al cambiamento: è una rivoluzione. Alcuni dicono “Eh, però…”. Io mi ricordo mio papà quando arrivò il computer: “Eh, ma la macchina da scrivere”, però è la storia, fatta di corsi e di ricorsi. Cioè, quando ci fu la lettera: “Eh, ma la lettera…”, “Eh, però la mail è un’altra cosa”, “Eh, ma il computer”.
Stefano: Non se ne esce.
Tinto: Allora, non se ne esce. Cioè, tu non ti puoi opporre al cambiamento: è chiaro che se io devo mandare una lettera o un bigliettino, preferisco la carta. Non userò mai la mail, anzi, una volta che scrivo, scrivo magari in modo intelligente.
Stefano: La questione che pone, forse, questo passaggio in cui siamo così dentro che alle volte facciamo ancora difficile a capire, a distinguere là dove ci stiamo divertendo, da quando stiamo invece lavorando, cercando di fare qualcos’altro, è appunto capire cosa davvero ci è utile, nel senso che poi c’è stata anche una corsa ad esserci in qualche modo, talvolta scriteriata, che poi ha generato forse anche alcune delusioni, da parte forse anche di alcuni venditori.
Tinto: Oppure, a volte, io vedo anche al ristorante, per esempio-
Stefano: Scusa se ti interrompo: alcuni aprono pagine e poi non le curano, quindi sono conversazioni interrotte, e quindi forse può essere un danno.
Tinto: C’è un abuso. Però guarda sull’utente finale, come ti dicevo prima: se tu sei al ristorante e arriva il piatto, oppure c’è il sommelier o lo chef che ti descrivono un piatto o un vino e tu la prima cosa che fai, non li stai neanche a sentire, prendi e fotografi perché devi postarlo. Lì ti perdi anche un attimo un momento, quindi lì è sbagliato, lì stai fuori. Perché il momento è lì, adesso, tu non puoi essere da un’altra parte.
Stefano: Senti Tinto, io ti ringrazio molto, ti chiedo ancora una cosa: voi, anche per aiutare le persone che magari hanno bisogno di comunicare il vino… tu come giornalista, come autore, conduttore, tu e Fede, come scegliete le storie? Cos’è che fa la differenza? Perché poi racconti ce ne sono tanti, occasioni ce ne sono tante… voi cosa cercate in una storia? Perché ne scegliete una piuttosto che un’altra?
Tinto: È chiaro che l’originalità è alla base: io, grazie a Dio, ho avuto anche la fortuna con i programmi radiofonici e televisivi di conoscere miliardi di persone. Proprio l’altro giorno stavo mettendo a posto i bigliettini da visita di tredici anni di programmi in radio, in tv, di eventi… ho una valigia, una VALIGIA, piena di bigliettini da visita. Allora, se tu mi chiedi “Tinto, quali ti ricordi?”, io per dividerli devo pensare alle regioni. Ma ci sono le persone, quindi non mi ricordo il bigliettino ma mi ricordo quella persona. Lì, sai, è anche dovuto al fatto che tu li conosci. Allora, già anche l’approccio: quante volte al Vinitaly uno si propone “Oh Tinto, dai, assaggia questo vino perché è buonissimo!”, e io dico: “Ma va, vorrei vedere che tu lo faccia male”, è normale che sia buono. Ormai la qualità la danno quasi per scontata, però qual è la tua storia? Che cosa vuoi comunicare? Cosa vuoi raccontare? Quindi io ancora, quando ci sono delle situazioni particolari, delle storie uniche, originali, ancora mi ci affeziono ed è il bello del nostro lavoro. Ti ho detto, su Frigo, per esempio, io andavo nelle case degli studenti: ho trovato delle situazioni… molti mi hanno detto “Ah, Tinto, si fa, c’è lo scenografo, avete ricreato la situazione”, e io tutte le volte dicevo “Ragazzi, ma guardate che è così”. Cioè, c’era una ragazza che teneva l’olio extravergine d’oliva in frigo, perché dice “No, perché così si mantiene”, cioè, capisci a che livelli siamo?
Stefano: Questo è interessante.
Tinto: Sì, però, voglio dire, è la situazione. Oppure, pensa a quando tu prendi un’insalata in busta e il costo che ha quell’insalata, e spieghi che la stessa insalata non in una busta, magari non in una busta di plastica ma in una carta ti può durare di più e ti costa molto meno, in tutto quell’insalata lì esce allo stesso valore di mercato. Io dico sempre che al mercato tu non sei un numero, “Adesso serviamo il…”: al mercato tu sei Tinto, sei Stefano. “Ciao Stefano! Come stai, com’è andata? Ma non dovevi andare questo weekend nelle Langhe? Lo sai che ti saluta…” oppure, quante volte un’emergenza: “Oh, ma ti posso lasciare le chiavi, passa un mio amico…?” al supermercato non lo puoi fare, nella grande distribuzione tu hai un carrello, vaghi, non conosci nessuno, la cassiera non te la ricordi… se c’è ancora la cassiera, magari devi far tu la spesa con lo scanner perché ovviamente devono risparmiare e metti la roba nel carrello. Quindi, c’è quell’aspetto social – che non è Facebook, Twitter e i social classici – che comunque ha un valore, è una peculiarità: vai a piedi, tu al mercato vai a piedi, col tuo carrellino, sei all’aria aperta, guardi, magari se sono certi mercati, sono anche luoghi storici. Mentre, da un’altra parte no. Quindi quello è un valore, ed è un patrimonio che va preservato.
Stefano: Quando ricomincia Frigo? E invece cosa farete a proposito di vino? Fede&Tinto, fino a quanto andrete avanti e quando andate in vacanza?
Tinto: Allora, Decanter fino al 31 luglio è in onda. Poi, è appena uscito da poco, è arrivato in presentazione del libro a Torino, il libro “Sommelier ma non troppo: il corretto abbinamento cibo-vino, gli abbinamenti di Vinocult” – Vinocult è questo nuovo portale che è nato dalla collaborazione con la Fondazione Italiana Sommelier proprio perché mancava una guida online per poter abbinare in modo corretto cibo e vino. Poi, a settembre, dovremmo – uso sempre il condizionale perché è il nostro lavoro in linea di massima sì, però per altri imprevisti… – riprendere Decanter su Radio2, poi dovremmo riprendere La Prova del Cuoco su Rai 1, e poi Frigo su Rai 2 con la nuova stagione, in base a quando inizieranno le riprese.
Stefano: Insomma, Tinto e l’enogastronomia, ormai siete indissolubilmente legati.
Tinto: Sì, sì. Assolutamente.
Stefano: Senti, Tinto, ti ringrazio molto per questa preziosa testimonianza sulla comunicazione del vino che hai voluto condividere con la comunità di Wine Internet Marketing. Con questa intervista Tinto, dicevi, non si può fare senza i social, e così anche a Wine Internet Marketing abbiamo deciso di aprire una pagina Facebook. Ho resistito un anno, ma Zuckerberg ci ha pregato di aprirla.Grazie a tutti per l’ascolto, alla prossima.
Tinto: ciao, ciao!

Tuesday Jun 07, 2016

Contro le falsità della comunicazione del vino, webcam in vigna e in cantina.
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Addio a vecchi registri di carta e via libera ai registri vitivinicoli digitali. Si fa tutto col sito del ministero: ma come?
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Oggi la tecnologia può monitorare il viaggio e l'integrità delle bottiglie.
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Comunicare il vino parte seconda e la proliferazione degli eventi: non solo ProWein e Vinitaly.
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Che cosa significa comunicare il vino? Cosa bisogna considerare per farlo bene?
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Saturday Mar 19, 2016

Perché oggi il successo di un produttore alla fiera del vino dipende anche dal suo sito internet.
L'articolo Così alla fiera del vino (ProWein) ho trovato l’importatore col sito internet – con Marilena Barbera di Cantine Barbera sembra essere il primo su WineInternetMarketing.it.

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